Al museo in Trastevere di Roma
L’arte alienata
Una mostra riscopre il genio di Roberto Sambonet che i suoi strumenti di pittore entrò nei manicomi per cogliere il senso profondo del dolore e del disagio
Pochi giorni fa, il 31 marzo, dopo tanti rinvii, è entrata in vigore una legge che abolisce per sempre i manicomi criminali, sopravvissuti all’onda della riforma Basaglia, consegnati alla gestione del ministero di giustizia e ribattezzati alla fine degli anni Settanta ospedali giudiziari psichiatrici, con un ipocrita eufemismo che si trascinava appresso il peggio di due istituzioni totali e disumanizzanti come il carcere e il manicomio: la follia come pena il più delle volte perenne, colpa senza redenzione. Il colpo di spugna resta al momento un obbligo di carta, perché in alcune regioni non sono ancora entrate in funzione le strutture alternative di recupero dove gran parte dei mille e più degli attuali internati ritenuti più pericolosi devono essere trasferiti. Ma il processo sembra ormai irreversibile. E segna un avvenimento in controtendenza per una società arroccata sul culto della sicurezza come quella italiana. Giusto dunque celebrarlo e garantirgli il risalto incalzante di una battaglia tutt’altro che conclusa, come fa la mostra itinerante costruita dall’associazione «La società della ragione», che dopo due tappe a Milano e Firenze è sbarcata a Roma, al museo in Trastevere di piazza Sant’Egidio dove terrà cartellone fino al 3 maggio.
A darle corpo e respiro da evento da non perdere, non è solo il suo valore di invito di partecipazione e di monito, ma la riscoperta di un grande artista dimenticato dai più o conosciuto dai cultori del design in altra veste come pluripremiato creatore di oggetti, marchi e campagne pubblicitarie, passate alla storia del Made in Italy: il milanese Roberto Sambonet (1924-1995). Già, che rivelazione quel taccuino di studi e disegni, datato primi anni Cinquanta, pubblicato in poche copie negli anni Settanta, e ora ripescato dall’oblio e riproposto dai curatori Franco Corleone e Ivan Novelli con il titolo: I volti dell’alienazione. I volti sono quelli degli internati di Juqueri, un malfamato manicomio criminale nell’hinterland di San Paolo, dove Sambonet, durante gli anni, dal ‘48 al ‘54, di un soggiorno di formazione in Brasile, dimorò per oltre sei mesi, ospite del suo amico psichiatra, che lo dirigeva, cercando di distillare il mistero e gli abissi di quell’umanità dolente che espiava la pena della propria pazzia.
Le terapie dei disturbi mentali erano ancora arretrate, intrise di pregiudizi alla Lombroso. Goffman e Foucault non avevano ancora pubblicato i loro rivoluzionari studi sulla follia, Basaglia non era ancora entrato in azione. Per penetrare la realtà del manicomio, tanto più un manicomio criminale, Sambonet non aveva appigli, se non i consigli del direttore, uno psichiatra senza paraocchi. Il ricordo dei superstiti dei lager nazisti che si porta e a Juqueri sente risvegliarsi dentro. E poi l’illuminante scenario letterario di separazione e arbitri raccontato in chiave grottesca un celebre romanzo breve brasiliano fine Ottocento, L’alienista di Machado de Assis. Ma a guidarlo in quel lungo viaggio all’inferno, che riuscì a trasformare in un profetico reportage di denuncia, c’era soprattutto il suo sguardo d’artista, capace di cogliere il visibile e l’invisibile. Di concentrare in un’immagine il senso di sfida, paura, sofferenza a volta rassegnazione dei malati che incontrava e interrogava insieme al distacco, l’indifferenza punitiva, la coercizione del manicomio. Anticipando gli scatti dei grandi fotografi italiani che affiancheranno venti anni dopo in modo magistrale il lungo e contrastato cammino della legge Basaglia.
Roberto Sambonet non può fermare la realtà come un fotografo, travolto da quell’esperienza, osserva, parla con i degenti, prova ad entrare in sintonia con le storie, le emozioni che ognuno di loro rivela o tenta di nascondere, prende appunti, butta giù schizzi. Solo dopo rielabora con il dovuto distacco quel materiale che gli brucia dentro, cercando sempre più l’essenziale per sfuggire all’insidia di trasformare in colore stereotipato la follia, in pura, innocua cronaca lo spettacolo di pathos ed orrore cui assiste. Per trasmetterci più dubbi che certezze, perché – scopre – solo i dubbi ci avvicinano alla verità. E ci coinvolgono. Da questo lavoro su se stesso e sul linguaggio del segno vengono fuori i quaranta indimenticabili disegni a pennarello e inchiostri di china con cui condensa la sua esperienza. Il più impressionante? Certamente l’urlo, quasi una risata di rabbia, che sgorga dalle labbra di un negro legato a un letto di contenzione, pratica comune fino a ieri in tutti i manicomi criminali. Un grido che sentiamo nostro, cui non possiamo voltare le spalle.
Ma ci hanno toccato ancora più a fondo almeno altre tre immagini. La prima, una linea continua con pennarello nero, che traccia la sagoma di un uomo in movimento. Le mani all’indietro, la testa calva protesa in avanti, i piedi che tagliano obliqui lo spazio. Dove sta andando? E dove stiamo andando noi insieme a lui, separati dalla sua condizione solo da un orizzonte diverso, magari meno vago di quella spinta inerte che sembra guidarlo. La seconda immagine è quasi una variante: solo che i piedi stavolta sono storti, indecisi, che la testaè voltata e gli occhi spiano una scia di segni impressi sul terreno alle spalle. C’è in quelle orme il passato, il futuro, o entrambe? Una domanda racchiusa in una vita negata.
La terza, inquadra un uomo, giovane, vecchio chissà, la faccia un tappeto di rughe che inghiotte anche gli occhi, una mano che accarezza il cervello. Sembra ascoltare i sussulti, le voci del proprio disagio. O forse soltanto l’eco debole , il prurito sempre più debole, dei propri ricordi.