A proposito di "Ota Benga"
La natura di NY
Nel suo terzo romanzo dedicato a New York, Antonio Monda ne racconta la violenza. Ma non quella delle gang, bensì quella della gente comune quando perde le proprie radici
Ota Benga (Mondadori, 150 pagine, 18 Euro) è il terzo tassello di una decalogia che Antonio Monda intende dedicare a New York, città che lo ha accolto più di vent’anni fa offrendogli un posto, una famiglia, una casa, una vita. Via via che si forma questa “collana” di romanzi tutti creati per comporre il mosaico, la figura fratta eppure coesa, della città di New York, risulta chiaro che il tratto comune, e non necessariamente rassicurante, è questa identificazione della sua voce più autentica e segreta in alcune figure femminili (fittizie): qui Arianna Sarris, antropologa dunque donna di studio e di professione, a partire dagli inizi del Novecento. Queste figure sono le sole, potenti e sommesse, ermeneute corrette della condizione umana, di cui la New York è ribalta, vetrino, e universo caleidoscopico.
Questo terzo libro, narrato da Arianna che dovrà seguire il tortuoso filo che le è destinato per vedere, conoscere e comprendere (capire e tenere insieme) il tassello di storia umana che le è stato assegnato di esplorare, è anche l’Odissea Senza Ritorno (vera) di Ota Benga, pigmeo congolese catturato per (fraintesa eppure innocente e impune) carità cristiana e consegnato al “mondo civilizzato” dove la scienza disumana e astratta lo classifica come “anello mancante” tra scimmia e uomo, e lo reclude per esporlo allo zoo di NY tra i primati e a un passo da un altro ospite eccezionale, Geronimo, grande anima nativa. Ai visitatori Ota Benga offrirà solo i propri attoniti silenzi (ma qualcuno giurò d’averlo sentito cantare), la chiostra dei denti aguzzi limati per azzannare le prede, qualche svogliata, irriverente pisciatina.
Attraverso il contatto molto umano, affettuoso, con il piccolo uomo (soli 120 cm d’altezza), da molti scambiato per un bambino, Arianna riesce a misurare tutto il mondo. Certo quella parte di mondo in cui le è dato imbattersi. Il fidanzato di origine olandese, Ruud, newyorkese doc dunque, sempre più osceno ai suoi occhi a dispetto della bionda bellezza, dunque della purezza wasp che è uno dei valori agitati dal mondo dei bianchi con chiaro scopo di mettere un argine al dilagare del black power che intanto cerca di farsi largo. I vari e tutti impazziti scienziati e teorizzatori della superiorità della «razza ariana», millantatori professionali di verità scientifiche inesistenti e assolutamente non dimostrate né dimostrabili. L’allontanamento temporaneo dal cuore di questo tragico crogiuolo di idiozie pur potenti a spargersi e raccogliere consensi permette ad Arianna di fare il punto anche sulla propria natura di oriunda e con le radici greche, che non a caso sono le radici della civiltà occidentale, su un piano anche squisitamente linguistico, quindi culturale in senso totale. I greci di New York sono confinati a Coney Island, marginali al centro, ma il padre di Arianna è felice di poter stare a contatto con quell’oceano che non ha niente della schiettezza colorata dell’Egeo, rimastogli negli occhi, ma almeno è mare, è profumo molto diluito ma pur sempre percepibile della lontanissima Grecia delle origini.
Anche Ota Benga, costretto a esplorare un mondo dove odori suoni colori sono astratti, senza più anima, disumani, vuole riassaporare il fiume, la giungla, l’Africa, dopo aver potuto avere una sua parentesi paraselvaggia in Virginia… è molto bello il modo in cui Arianna e Ota Benga si riavvicinano restando a distanza, attraverso una catena di persone che li separano e li riannodano, e non ve lo dico, perché la bellezza sta tutta lì: godetevela, scopritela da soli e gustatela, con una punta di debita commozione.
Torna in questo terzo capitolo dell’affresco di New York da parte di Antonio Monda un’intuizione notevole che risponde anche a un gusto, a una passione del’autore: un continuo contraltare alle vicende narrate stabilito nel pugilato, confronto per contrasto – contrappasso geniale: la grande boxe come versione agonistica della “estensione della lotta” di marca maschile, non per caso infatti sport preferito da Ernest Hemingway (innamorato dell’altra lotta maschia, la corrida), autentico sacerdote della mesta religione del “tough man”. Qui riviviamo l’incontro tra Jim Jeffries, alfiere della cultura bianca, e Jack Johnson, eroe nero. L’incontro è lo scontro tra le due culture che si contendono New York e l’Occidente. Ma è impari. I bianchi hanno il solito atteggiamento dominante, arrogante, sfottente, da vincitori predestinati. Vincere non è solo portare a casa un risultato, può diventare una provocazione, un’insubordinazione. I bianchi, ariani, nazisti in pectore, non l’accetteranno. Anche Jack London l’avverserà.
Questo libro, narrato in prima persona, come si diceva, in modo limpido, con una sorta di sistema cronistico e di inclusività, discute la cultura della violenza, il razzismo come errore immanente da riconoscere.
Non si può non rilevare del resto (non è forse questo un libro che in maniera aperta discute la vita umana in chiave antropologica?) che la società maschile è tutta proterva e dedita all’inseguimento di primati e dominii che richiedono la fede e la pratica della violenza, della forza bruta, anche quando questa è esercitata in territori apparentemente pacifici come lo studio e la scienza. Dunque tocca a una antropologa, una donna di studio e di scienza contro ogni avversa legge sociale condivisa persino dalle stesse donne, riuscire a dedicarsi all’analisi e alla comprensione antropologica (e antropometrica) con passione e grande impegno, tentando via via sempre meglio o, beckettianamente, fallendo sempre meglio, cioè sempre di più.