«Bosseide» pubblicato da Gaffi
Il boss espropriato
Nando Vitali ha immaginato di entrare dentro alla testa di un boss della camorra per coglierne le geometrie barocche che la regolano. Ne è venuto un grande romanzo sul male
Esiste un altro modo che non sia la fiction, il titolo sparato dell’articolo di cronaca o l’inchiesta giornalistica per raccontare la camorra? Esiste un modo per trasferire il flusso di pensieri di un boss di camorra dentro le pagine di un libro? Questo modo esiste e l’ha trovato Nando Vitali, che col suo ultimo romanzo Bosseide, (Gaffi Editore, pag. 240, € 14,90) affronta un tema abusato come quello del sistema camorristico e delle sue manifestazioni narrandolo dall’interno, attraverso i pensieri più che le azioni.
Bosseide è quindi la storia di un uomo: della sua infanzia disgraziata, dei nonni che falliscono l’emigrazione, del suo divenire Boss e poi del rapporto con la moglie, con il figlio, con la sorella, con l’amata cavalla con gli affiliati. Una storia che ha l’epicentro nel Paese –la mai nominata Bagnoli, estremo quartiere flegreo di Napoli- e nella villa del Boss, chiamata sempre il Castello come il protagonista è chiamato Boss, piuttosto che Salvatore. Una storia fatta di corporeità e filosofia, scritta con un linguaggio ricercato e a tratti poetico, punteggiato di qualche raro termine dialettale e di poche ma crudelissime scene di sangue e violenza. Una storia dove si rincorrono evocazioni, sogni, ricordi e che termina con un epilogo imprevisto, che capovolge i luoghi comuni sull’esercizio del male ma non per questo ne assolve i protagonisti.
Per sottolineare l’epicità di questa storia, il cui sottotitolo non a caso è La fascinazione del male, Vitali sceglie di farla raccontare a un cantore cieco, Don Antonio, amico di infanzia di Boss, e a lui fedele non solo a causa del suo handicap, la cui voce corre lungo tutto il romanzo come l’elemento più saldo dell’intera narrazione.
Nel corso della presentazione, tenutasi con grande concorso di pubblico la settimana scorsa allo spazio Feltrinelli di Napoli, ognuno dei relatori, moderati dal giornalista Piero Antonio Toma, ha dato il suo contributo alla definizione del libro, tutti concordando sulla somiglianza tra l’autore e la sua opera.
Antonella Ossorio ha riconosciuto un valore “universalistico” al romanzo e al suo protagonista, che le ha ricordato il dittatore de “L’autunno del patriarca” di Marquez attorniato da personaggi sospesi come le figure dei quadri di Hopper. Francesco Costa ha ammesso la inevitabile “scaramuccia” che nasce tra lo scrittore che legge e il libro dell’altro scrittore, riconoscendo al personaggio di Boss qualcosa di mostruoso e di unico, capace di generare compassione. Silvio Perrella, infine, ha individuato nel tentativo di Vitali di “espugnare” la mente di Boss il cuore intimo del libro, quello che da sostanza al thriller ma anche al continuo esercizio di introspezione psicologica.
In apertura e chiusura dell’incontro, la bravissima attrice Adele Pandolfi ha letto due brani del libro, mentre Nando Vitali ha trovato parole davvero ispirate per raccontare del suo rapporto con la letteratura: «Scrivo guidato dallo spirito del bambino di Dylan Thomas, che ha lanciato un pallone in aria e non è mai caduto. Quel pallone è per me la letteratura».