Al Vittoriano di Roma fino al 3 maggio
Fratelli Armeni
Dopo il j'accuse di Papa Francesco, a cent'anni dal genocidio, una mostra ripercorre la storia del “popolo dell'Arca” che proclamò quella cristiana religione di stato nel 301 e che Ataturk volle sterminare. Una memoria necessaria, contro il negazionismo e la prepotenza di Ankara...
Il 24 aprile 1915 è una data da ricordare. Segna l’avvio del primo genocidio del Secolo breve. Nella notte, uno per uno, gli intellettuali e i politici armeni vennero prelevati dalle loro case. Il pogrom fu opera dei Giovani Turchi di Atakurk che dopo aver fatto piazza pulita dell’Impero Ottomano voleva estirpare i fedeli di Cristo. Già, perché l’Armenia è un cuneo cristiano tra territori di fede musulmana.
Dell’Armenia si conosce ancora molto poco, in Europa. Il velo sulla tragedia l’ha squarciato a tutti Papa Francesco, due settimane fa. Ne è seguita la dura reazione di Ankara. Ora sapere che cosa successe proprio a partire dall’aprile di cento anni fa è più facile se si visita una mostra, a ingresso gratuito, allestita a Roma, al Vittoriano, fino al 3 maggio. Monasteri ridotti a macerie, appena un muro resta in piedi circondato da un deserto di pietre e detriti. Cupole sventrate. Fantasmatiche chiese. Croci spezzate. Sono le immagini circostanziate di distruzione della rassegna, intitolata Armenia. Il popolo dell’Arca, fanno parte della sezione multimediale dell’esposizione curata nel centenario del genocidio dall’Unione degli Armeni d’Italia e coordinata da Alessandro Nicosia, presidente di Comunicare Organizzando. Foto che bruciano. Perché quei monumenti eretti dalla fede cristiana quasi duemila anni fa e annientati dai musulmani un secolo fa rimandano alle distruzioni operate in questi mesi dallo Stato Islamico, come prima dai talebani del mullah Omar. Giù a colpi di piccone, con le bombe, con le mitragliatrici i Budda di Bamyan e la città romana di Leptis Magna, la biblioteca Al Saeh di Tripoli e l’antica Nimrud. E giù, lo scorso settembre come nel 1915, un tempio armeno. Così come la chiesa di Santa Croce, del X secolo, situata su un’isola del lago Van, era diventata bersaglio delle esercitazioni di tiro. Allora furono i turchi a distruggere, ora l’Isis, che ha raso al suolo il monastero di Deir Ezzor.
Nella grande sala del Vittoriano un proiettore delinea sul pavimento la mappa dell’Armenia che fu. Un territorio vasto, nel quale i romani assaggiarono per la prima volta le albicocche, che chiamarono “mele armene” e cominciarono a coltivare a Ovest. Un Eden tra Mar Nero e Mar Caspio, tra Europa e Oriente, tra quella che sarebbe diventata Urss e Impero Ottomano. Adesso, dopo lo sterminio di un milione e mezzo di uomini, la deportazione di donne e bambini, la negazione di una razza, l’Armenia è un piccolo stato tra le montagne del Caucaso, esteso quanto il Belgio. Sul grande schermo, nella rassegna all’Altare della Patria scorrono anche le immagini più crude dei corpi ammassati nella polvere, degli impiccati. Hanno per colonna sonora le voci dei politici e degli intellettuali italiani che denunciarono il massacro. Parole di condanna libere da tatticismi, dalle ambiguità di convenienza sventolate da Palazzo Chigi dopo il coraggioso j’accuse del Pontefice. Erano le parole di Antonio Gramsci, di Filippo Meda, di Luigi Luzzati. Nel Duemila la Camera dei Deputati votò una risoluzione contro il genocidio armeno invitando la Turchia a fare i conti con la propria storia. È quanto ha ricordato il Santo Padre, con una franchezza, una parresia che intende proteggere pure i cristiani a rischio oggi: «Il genocidio degli armeni è stata la prima immensa strage del Novecento». Ma il mufti di Ankara si è scatenato per giorni contro di lui e il premier turco lo ha accusato di aver aderito al “fronte del male” composto da quanti complottano contro la Turchia. Mentre il Parlamento europeo ha appena approvato per alzata di mano una risoluzione che riconosce la pulizia etnica che decimò gli armeni. Un colpo durissimo alle aspirazioni del Bosforo di entrare nella Ue.
Dunque, per capire quello che avvenne nel 1915 e qual è il posto dell’Armenia nella Storia ecco i sette segmenti dell’esposizione romana. Il popolo dell’Arca è una comunità identitaria che cominciò ad aggregarsi attorno a Taddeo e a Bartolomeo, apostoli di Gesù, e che abitò intorno al Monte Ararat, dove la Bibbia dice si fosse arenata la barca di Noè, capace di sfidare il diluvio universale. All’inizio del IV secolo San Gregorio Illuminatore battezzò il re armeno Tiridate III, messo sul trono da Diocleziano. E nel 301 egli, primo tra i regnanti, proclamò il cristianesimo religione di Stato. Prima che Costantino si inchinasse davanti alla Croce che gli diceva In hoc signo vinces ed emanasse, nel 313, l’Editto di Milano che permetteva ai fedeli del Nazareno di professare liberamente il proprio Credo. Il gesto di Tiridate III è dunque l’atto fondante della particolarità armena, l’alfa di una tradizione religiosa e di una cultura profondissime. Ne sono testimonianza gli oggetti esposti al Vittoriano. Prime fra tutte le croci in pietra, massicce come sassi miliari e insieme leggiadre negli arabeschi di foglie e fiori, tempestate di pietre preziose. E i codici miniati provenienti dalla Biblioteca del monastero di San Lazzaro a Venezia, dove religiosi venuti dal Caucaso diffusero il loro sapere. Traducono, quei codici, il Vangelo nella lingua armena, articolata in un alfabeto di 38 caratteri creato dal monaco Mesrop Mashtots con l’aiuto di uno scriba greco e illustrato ai visitatori con l’aiuto di un touch screen. Ed ecco gli oggetti rituali, i flabelli, sorta di ventagli a protezione di oggetti sacri e dei sacerdoti. O una tenda del XVII secolo, finemente istoriata, che serviva a separare il divino dai fedeli, come impone il rito armeno, per preservarlo dall’impurità. Fortemente simbolica è anche l’architettura delle chiese in tufo, esemplificata in modellini: un austero edificio circolare – rinserrato tra facciate più basse dal tetto spiovente – e sormontato da un cono.
Oggi gran parte dell’Armenia storica si trova in territorio turco. E i cristiani di Erevan vedono al di là delle proprie frontiere la montagna sacra dell’Ararat, che accolse con l’Arca la speranza della rinascita. Davvero Ankara oltre a negare le verità del passato domina ancora con la prepotenza il loro futuro. Alla montagna Sacra Mario Verdone, viaggiatore appassionato e poligrafo dagli infiniti interessi oltre che storico del cinema, dedicò nel 1987 una poesia, sgorgata anche dell’ammirazione nei confronti del grande scrittore armeno Ciarenz, del quale organizzò in volume Odi armene a coloro che verranno (Ceschina, 1968 replicate in svariate altre edizioni). Eccola.
Dorsi neri
come nastri
scendevano
sulle nevi eterne
spalmate di melograno.
Gocce di pioggia
e folate di vento
al tramonto
avevano liberato
la cima
e l’Ararat era apparso
compatto
come la testa canuta
di un dio
magnanimo e misterioso
sereno e irraggiungibile.