A Napoli, a Palazzo Zevallos Stigliano
Consenso di guerra
Una mostra molto documentata ricostruisce la parabola della propaganda del governo italiano durante la Prima guerra mondiale. Al grido di «Date denaro per la Vittoria: la Vittoria è la Pace»
In che modo, durante la prima guerra mondiale, le autorità italiane si rivolsero alla popolazione civile? Come cercarono di instillare nelle persone, angosciate per i congiunti o gli amici che avevano al fronte, un sentimento di partecipazione per le vicende belliche? E soprattutto, come convinsero la gente a fornire supporto economico per il bene della patria? A queste domande prova a fornire risposta la mostra La Grande Guerra. Società, propaganda, consenso, inaugurata due settimane fa a Napoli, a Palazzo Zevallos Stigliano, storica sede del Gruppo Intesa San Paolo. In contemporanea, presso le altre due sedi storiche della banca, a Palazzo Scala a Milano e a Palazzo Leoni Montanari a Vicenza, hanno aperto i battenti le mostre correlate Arte e artisti al fronte e I luoghi e l’arte feriti.
Il percorso della mostra napoletana si compone di tabelloni introduttivi, due video-racconti intitolati «Quelli che vanno» e «Quelli che restano», oltre cento bellissimi manifesti dell’epoca e, in chiusura, della proiezione di spezzoni di film del periodo della guerra.
Questa iniziativa, che anticipa di poco il primo centenario dell’entrata in guerra dell’Italia – il 24 maggio 1915 è la data della dichiarazione di guerra all’Austria – mette subito il visitatore nel clima del tempo e fornisce, più di quanto non facciano i libri di storia, informazioni sulla società dell’epoca. Attraverso i manifesti, dapprima rutilanti di colori e baldanza, poi via via più cupi sia nei messaggi che nelle tinte, si capisce come la propaganda, a partire dal dibattito tra neutralisti e interventisti, in quegli anni abbia cercato di trasformare la tragedia della guerra (la paura, gli stenti, la morte al fronte) in elementi per conquistare il consenso (le donne, i figli, il culto della patria). Per farlo, ha messo a punto nuovi codici di comunicazione: accanto al manifesto ha cominciato a utilizzare cartoline, riviste illustrate, opuscoli, e anche la musica, le canzoni, il cinema sono stati chiamati a rappresentare un paese impegnato allo spasimo nello sforzo bellico.
Nell’iconografia di questi manifesti, l’Italia è sempre rappresentata turrita, il tricolore è ovunque, insieme a corone e spade; le figure femminili sono imploranti con lo sguardo al cielo, o battagliere che incitano al riscatto; i soldati, anche quando orrendamente mutilati, esortano al coraggio. Per far fronte al bisogno, al pericolo, alla morte – concetti che riecheggiano ossessivamente – questi nuovi strumenti pubblicitari chiedono alla gente di sottoscrivere i prestiti nazionali (spesso definiti sui manifesti «Prestiti della Vittoria» o «della Liberazione») e lo fanno agitando lo spauracchio della paura, dello straniero predatore, di un mai augurabile futuro sotto il «barbaro invasore».
Un soldato almeno quarantenne con la baionetta in una mano e l’altro braccio teso che grida «Aiutateci a Vincere!» e un cannone puntato che ha appena sparato con la scritta «Date denaro per la Vittoria: la Vittoria è la Pace»: sono solo due esempi del linguaggio utilizzato per far leva sui sentimenti della popolazione e per avvalorare il concetto che «la guerra risolve tutti i problemi nazionali». Si capisce, soprattutto nella comunicazione successiva alla disfatta di Caporetto, che i principali nemici da combattere, per chi gestiva la comunicazione e l’opinione pubblica, sono quelli “interni”: lo sconforto e il disfattismo. Sempre in questo periodo abbondano le iniziative come concorsi e lotterie per raccogliere fondi per la Croce Rossa, coinvolgendo artisti e illustratori che si impegnano nel disegnare figure di vedove, orfani e mutilati.
I due interessanti video-racconti che aprono il percorso espositivo ricordano entrambi al finale il bilancio complessivo di quella sciagurata guerra che aprì il millennio: 9 milioni di morti, 21 milioni di feriti, 9 milioni di prigionieri. Tradotte, queste cifre significano che nel periodo tra il 1915 e il 1918 morirono in Europa 4 persone al minuto. Il contributo che Napoli e la Campania diedero in termini di vite umane fu di quarantamila persone, un dato che colloca la regione al quarto posto dopo la Lombardia, la Toscana e l’Emilia. E in effetti, a pensarci bene, non c’è paesino del più sperduto entroterra campano dove non sia possibile trovare una lapide col nome dei figli dati a quella guerra. Tra gli spezzoni dei film visionabili alla fine della mostra, risalta quello in cui un giovanissimo Eduardo de Filippo veste i panni di un soldato in licenza che va a portare la notizia della morte del suo tenente alla fidanzata di questi. La delusione e lo sgomento che l’uomo prova trovandosi di fronte a un’attricetta che, anche per sopravvivere, ha trovato ben più di un fidanzato, preannuncia il ritratto del reduce che Eduardo fece alcuni anni dopo nel suo capolavoro Napoli Milionaria: quel Don Gennaro ossessionato dai ricordi della guerra a cui nessuno dei parenti e degli amici del quartiere è disposto a dare ascolto.
Il progetto delle tre mostre, che saranno aperte fino al 23 agosto, è inserito nel programma nazionale per le commemorazioni del centenario della grande guerra.