Una mostra al museo Bilotti di Roma
Cartoline di confine
Diciassette artisti scelti da Marco Di Capua si misurano con temi grandi: la città, il corpo e il paesaggio. Ma non sempre lo sguardo riesce a spaziare oltre i confini del visibile
Linee di confine. Il titolo fa richiamo, induce in tentazione. Perché evoca uno dei luoghi chiave del mondo di oggi. Confini che sembravano invalicabili e sono saltati: l’economia globale, le migrazioni, internet, le frontiere della morte che si sono spostate più in là. Nuovi confini che ne prendono il posto: le guerre di religione, la classe media che perde terreno, le derive di destra, le paure dell’Altro. E tutti noi lì in mezzo a chiederci chi siamo, dove stiamo andando, con quali passaporti ci dobbiamo attrezzare. Insomma guardi la locandina e pensi: finalmente una collettiva d’arte che si misura con il proprio tempo, obbliga gli autori che convoca alla ribalta a farne da specchio.
E invece la rassegna che il curatore Marco Di Capua porta in scena fino al 21 giugno nella sale del museo Bilotti di villa Borghese tradisce in gran parte queste promesse. Ci trascina in un limbo di effetti abbastanza scontati che non ripaga le attese. Un po’ è la rigidità delle intenzioni di regia, che condanna volutamente dietro la lavagna come allievi indisciplinati gli interpreti dell’arte astratta: basta con gli autori che si guardano l’ombelico, si tuffano nelle emozioni simulate e criptiche dell’informale, scrive Di Capua nel suo testo in catalogo, schierandosi quasi dovesse consumare una rivincita personale per l’arte di figura. Come se il vero traguardo della pittura consistesse nel ribadire il visibile di icone riconoscibili e non nel rendere visibile l’invisibile.
Poco male: un punto di vista va rispettato. Peccato che, definita questa scelta di campo, la compilation che il curatore sottopone al giudizio non risulti del tutto all’altezza delle sue ambizioni. Condizionata com’è dal fatto che la mostra è finanziata da un noto gallerista romano, Fabrizio Russo, che ha imposto in rosa a mo’ di campionario per i clienti molti cavalli della sua scuderia. Ma più ancora dalla evidente difficoltà di molti autori selezionati, 17 tra pittori e fotografi, di rispondere alla sfida, che Di Capua aveva incanalato su tre leit motiv: la città, la Natura, il corpo.
L’esito più deludente riguarda i lavori sulla città, che pure sulla carta sembrava il tema più stimolante, il territorio dove i confini si sbriciolano e si ricostituiscono in continuazione , modernità e passato si fanno la guerra o sfilano in maschera l’una accanto all’altro. E invece le città di questa mostra sono città immobili, al riparo da conflitti e tensioni. Non salgono e non scendono, svuotate di vita si limitano a farsi mettere in posa. Dipinte bene, ci mancherebbe, ma immobili, ferme come donne oggetto. Una visione da cartolina la Istanbul notturna sfavillante di luci riflessi sul Bosforo fotografata dal pennello iperrealista di Tommaso Ottieri. Anodina e chiusa in una coltre di colori opachi la New York di Bernardo Siciliano, inquadrata dall’alto a catturare il caos dei suoi tetti. Trasformata in uno specchio di colori pastello anonimo e rassicurante la Roma dei palazzoni di periferia ritratta da Giorgio Ortona. Non basta spostare lo sguardo per segnare un confine, se lo sguardo non scalfisce la superficie. Oppure la trasforma in ricamo, decorazione, mobile o soprammobile, come fa Marco Petrus (nelle foto accanto al titolo) giocando sulla facciata di un palazzo moderno come in un saggio di design al computer. O ancora la rimodella a teatrino, sfocando i contorni per citare o mimare le atmosfere sospese alla Hopper, come fa la fotografa Alice Pavese Fiori con le quinte moderniste dell’Eur.
Qualche vibrazione in più la trasmettere il capitolo dedicato ai corpi. Merito di Bernardo Siciliano che qui si riscatta e da prova del suo talento con un intensissimo crocefisso: niente chiodi, l’uomo è appeso alla croce con dei legacci, bloccato in un dolore che così diventa esperienza laica, condizione di tutti.Una marcia in più rispetto alla gigantografie di volti di migranti appese nella stessa stanza: sudore, rughe, labbra screpolate, occhi che interrogano il vuoto in confezione extralarge, ma un sapore di già visto che toglie forza ai ritratti. Lo stesso eco di muffa e di saturazione che inquina l’istallazione del napoletano Christian Leporino, quei calchi in gesso del suo volto accumulati in terra nell’atrio del museo: come si fa a spacciare per opera site specific un’idea così tanto sfruttata?
Lo spettacolo più stimolante arriva invece da due variazioni sul tema del paesaggio. Evidentemente più facile per gli artisti di oggi, così attenti a non scoprirsi e compromettersi quando gli si chiede di confrontarsi col sociale, liberare il loro estro nell’indistinto e assoluto mistero della Natura. Mette i brividi quella montagna innevata che sembra lacrimare disperazione, ultimo quadro di Carlo Picozza, prima di arrendersi quarantenne alla morte. Sfondano ogni vincolo di genere e di realismo quei boschi di alberi scrostati, neve e terra tagliati da segni e colori di mistero firmati da Giovanni Frangi, tra i migliori talenti della generazione over Cinquanta.
Un’ultima annotazione. Riguarda due autori, non certo i più bravi, ma sicuramente più dentro al tema. Minimalista ma intonatissimo il lavoro con cui Angelo Bucarelli (nella foto sopra) traccia la sua linea di confine, omaggio a quella terra di frontiera che è Trieste e alle sfide alla terza dimensione dei tagli di Fontana: una scritta Confine incastonata in una teca divisa da un solco profondo dove oscilla un pendolo. Più facile ma di grande effetto il campionario di foto con cui da reporter all’antica racconta la normalità dell’orrore nell’Ucraina della guerra civile.