Gianni Cerasuolo
«Splendori e miserie del gioco del calcio»

Ai piedi di Galeano

All'indomani della morte del grande scrittore Eduardo Galeano, rileggiamo il suo libro dedicato al calcio che non c'è più: quello giocato nello spazio di una mattonella, come una milonga

A rileggere adesso, dopo la scomparsa di Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio, un titolo che non rende l’originale El futbol a sol y sombra, colpisce la capacità del giornalista e scrittore uruguagio di presagire vent’anni fa lo stravolgimento del gioco più bello del mondo. Nelle prime pagine infatti egli scrive: «La storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere. A mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall’allegria di giocare per giocare. In questo mondo di fine secolo, il calcio professionistico condanna ciò che è inutile, ed è inutile ciò che non rende… Il gioco si è trasformato in spettacolo, con molti protagonisti e pochi spettatori, calcio da guardare, e lo spettacolo si è trasformato in uno degli affari più lucrosi del mondo, che non si organizza per giocare ma per impedire che si giochi. La tecnocrazia dello sport professionistico ha imposto un calcio di pura velocità e molta forza che rinuncia all’allegria, che atrofizza la fantasia e proibisce il coraggio».

È quasi un manifesto alla Bellezza del Pallone. Un inno all’amore e all’erotismo, considerato che il «il gol è l’orgasmo del calcio». Ma, diciamolo, è anche un manifesto strappato dal muro e ridotto in pezzi. Questo calcio raccontato magistralmente da Galeano appartiene agli archivi. Attiene al cuore. Alla poesia.

Eduardo GaleanoÈ come se lo scrittore sudamericano giocasse su un terreno impraticabile nell’era contemporanea, distaccato dalle cronache agonistiche dei nostri giorni. Nonostante le previsioni azzeccate sulla decadenza e il volatilizzarsi del calcio come gioco. Splendori… è un classico per capire, analizzare, storicizzare. Come accade per Brera o Soriano.

Allora capita che, quando parla del calcio creolo, Galeano ci fa capire che questo divertimento d’importazione anglosassone per i paesi sudamericani andava diffondendosi tra le classi meno abbienti all’inizio del Novecento. «L’esperanto del pallone univa i poveri del posto con i braccianti che avevano attraversato il mare da Vigo, Lisbona, Napoli, Beirut o la Bessarabia che sognavano di fare l’America innalzando pareti, sollevando pesi, infornando pane e ripulendo strade. Gran bel viaggio aveva fatto il football. Era stato organizzato nelle scuole e nelle università inglesi, e in America del Sud rallegrava la vita di gente che non aveva mai messo piede in una scuola». In Argentina e in Uruguay si affermava la milonga da un lato, con i ballerini che si avvinghiavano su una sola mattonella e i calciatori «inventavano un loro linguaggio nel minuscolo spazio nel quale la palla non era calciata ma trattenuta e posseduta, come se i piedi fossero mani che intrecciavano il cuoio.  E nei piedi dei primi virtuosi creoli nacque il toque: la palla suonata come fosse una chitarra, fonte di musica». Ma anche in Brasile, a mano a mano che questo gioco si allargava dalle classi benestanti ai poveri e diventava brasiliano, succedeva qualcosa: «… così nasceva il calcio più bello del mondo, fatto di finte di corpo, andature oscillanti e voli di gambe che venivano dalla capoeira, la danza guerriera degli schiavi neri e degli allegri briganti dei sobborghi delle grandi città».

pelè 2Il calcio assomiglia a Dio nella devozione dei credenti da stadio e nella sfiducia che ne hanno molti intellettuali, sosteneva lo scrittore di Montevideo, ricordando le parole sprezzanti di Rudyard Kipling che chiamava i giocatori «infangati idioti» e l’atteggiamento di Jorge Luis Borges, il quale tenne una conferenza sul tema dell’immortalità il giorno stesso e alla stessa ora in cui la nazionale argentina giocava, in casa, la prima partita del Mondiale del ’78. «Il disprezzo di molti intellettuali conservatori si fonda sulla certezza che l’idolatria del pallone è la superstizione che il popolo si merita… In cambio, molti intellettuali di sinistra squalificano il calcio perché castra le masse e devia le loro energie rivoluzionarie. Pane e circo, circo senza pane: ipnotizzati dal pallone che esercita un fascino perverso, gli operai atrofizzano le loro coscienze e si lasciano trascinare, come pecore dai loro nemici di classe». Galeano in questo era molto d’accordo con Pier Paolo Pasolini: il calcio non è l’oppio dei popoli. E ricordava come l’Argentinos Juniors nacque rendendo omaggio nel nome (Club Martiri di Chicago) agli operai anarchici impiccati il primo di maggio.

Giudizi sugli inizi del Novecento, un’epoca oramai lontana. Come certi ritratti dei personaggi che via via popolano il libro. Gente oggi sconosciuta o quasi, protagonisti allora di gesti clamorosi, drammatici, a volte. Galeano li ricorda dando vita ad sorta di ballata country.

maradonaAbdòn Porte era un idolo per i tifosi del Nacional, giocava a centrocampo, aveva vinto quattro scudetti con il club uruguagio. Ad un certo punto arrivò il declino e piovvero i fischi. Dopo una partita in cui giocò e il Nacional vinse, la sera cenò con gli altri ma poi non tornò a casa. Andò allo stadio raggiunse il cerchio del centrocampo e si sparò un colpo al cuore. Anno 1918.

Artur Friedenreich era figlio di un tedesco e di una lavandaia nera, brasiliano come Pelé. Nessuno segnò più di lui, nemmeno Pelé. Artur ne fece 1329, quell’altro 1279. «Questo mulatto dagli occhi verdi creò il modo brasiliano di giocare. È stato lui a rompere gli schemi inglesi. Lui, o il diavolo che pareva infilarsi nella pianta del suo piede. Friedenreich portò nel solenne stadio dei bianchi l’irriverenza dei ragazzi color caffè che si divertivano contendendosi una palla di pezza nelle periferie. Così nacque uno stile aperto alla fantasia, che preferisce il piacere al risultato. Da Friedenreich in avanti, il calcio brasiliano, quando è davvero brasiliano, non ha angoli retti, come non ne hanno le montagne di Rio né gli edifici di Oscar Niemeyer».

Anche i protagonisti più recenti danno vita in Galeano a una prosa musicale, come fosse un giro di blues. Alfredo Di Stefano: «Tutto il campo entrava nelle suo scarpe». Pelé: «Quando Pelé avanzava di corsa, passava attraverso gli avversari come un coltello. Quando si fermava, gli avversari si perdevano nei labirinti che le sue gambe disegnavano… Quando batteva un tiro da fermo, gli avversari che formavano la barriera avevano voglia di piazzarsi alla rovescia, con la faccia rivolta alla porta, per non perdersi il golazo». Baggio: «Il calcio di Baggio possiede un mistero: le gambe pensano per conto loro, il piede spara da solo, gli occhi vedono i gol prima che questi si materializzano». Maradona: «Giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto».

roberto baggioA questo punto sorge il sospetto che a guardare con diffidenza il calcio contemporaneo contribuisca anche l’assenza di scrittori e cantori. Come se i vari Messi, Neymar, Lewandovski, Cristiano Ronaldo non avessero illustratori alla pari delle loro gesta. Gente alla Galeano. Rimediano, questi artisti funambolici e mercenari, raccontatori di giornali, bravi e tecnicamente impeccabili, incapaci però di suscitare una lacrima o un sorriso. Forse perché tutto è già stato visto, tutto si è esaurito in un instant replay delle emozioni.

Il pallone tradito e violentato dai nuovi commerci, dalla telecrazia, dal potere dei soldi dei nababbi orientali, ha però ancora la capacità di sorprendere. È questa la sua forza. «Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua ad essere l’arte dell’imprevisto. Dove meno te lo aspetti, salta fuori l’impossibile, il nano impartisce la lezione al gigante, un nero allampanato e sbilenco fa diventare scemo l’atleta scolpito in Grecia». Chissà dunque se Galeano si sarebbe divertito guardano il 6-1 del Bayern contro il Porto. Perché questo ci rimane del calcio: l’improvvisazione e la palpitazione. Contro muscoli, moduli di gioco e oligarchie finanziarie. Ma la fantasia non basterà a salvarci dall’ipocondria. Finito di lavorare al testo, Eduardo Galeano resterà «…con quella malinconia irrimediabile che tutti sentiamo dopo l’amore, e alla fine della partita». E noi con lui.

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