Nicola Bottiglieri
Cartolina da Buenos Aires

A zonzo a Baires

Da Mario Monicelli a Domingo Faustino Sarmiento, dai desaparecidos ai poveri migranti perduti nel Mediterrano: sì, Italia e Argentina hanno ancora molto in comune

Sono arrivato a Buenos Aires il 14 Aprile per partecipare alle attività del CUIA (Consorzio Università Italia Argentina) con i soldi contati, grandi speranze ed allo spesso tempo grandi rimorsi. Come al solito, l’autunno è bellissimo, il traffico caotico, l’odore di carne alla brace ad ogni angolo di strada, il cambio del pesos sempre inaffidabile: ufficialmente un euro vale 9.50 pesos, ma per strada ti danno anche 12.50 o 13, salvo che poi al ristorante, dove puoi pagare con euro, ti danno il resto in pesos.

Si dice sempre che l’Argentina e l’ Italia abbiano una patria comune, come una volta si diceva che i somali e gli italiani fossero fratelli, ma cosa è rimasto qui, nel Rio de la Plata, di quell’antica comune radice e cosa è rimasta della comune fratellanza con i somali del Corno d’Africa? Qui in Argentina bisogna subito dire che è rimasta molta retorica e purtroppo poco costrutto. La lingua italiana sta scomparendo, oramai la parlano appena centomila persone su una popolazione di circa 40 milioni (in Germania sono più di 600 mila) ma se la lingua batte in ritirata, la cultura italiana guadagna posizioni. Soprattutto il cinema: al Centro Culturale Recoleta ho visto una mostra dedicata a Mario Monicelli (ed era presente la moglie del maestro Chiara Rapaccini) presentata dall’Ambiasciatore d’Italia Teresa Castaldo. Oltre alla mostra vi era anche una iniziativa bellissima, ridisegnare i manifesti dei film più famosi: quelli dedicati a Fellini erano incantevoli, i manifesti dedicati ad Amarcord e La dolce vita sono stupendi. Insomma la grafica argentina resta di primissimo piano. Dopo Monicelli ho visto anche una mostra dedicata ad Asterix, dello sceneggiatore Goscinny e disegnatore Uderzo, non solo perché il cinema francese era ospite d’onore per il mese di aprile ma perché Goscinny era vissuto ed aveva studiato grafica a Buenos Aires, come Hugo Prat, autore di Corto Maltese.

buenos aires recoleta10Al fianco dell’ingresso al centro culturale vi è l’ingresso del cimitero monumentale. Sul muro di cinta che divide il cimitero dalla strada vi sono le bancarelle con l’artigianato fai da te, mischiato ai suonatori di chitarra: in qualche modo rallegrano la noia dell’eternità che vivono quelli che giacciono dall’altra parte del muro. Sono entrato nel cimitero ed ho salutato Domingo Faustino Sarmiento, l’autore di Civiltà e barbarie (non civiltà o barbarie, ma proprio civiltà e barbarie) Bartolomeo Mitre (il presidente della Repubblica che tradusse in versi la Divina Commedia) ed Evita Peron, la cui tomba è meta di innumerevoli persone fra preghiere, lacrime, sospiri e tantissimi selfie. Ho cercato la tomba di Gardel con la sigaretta sempre accesa fra le mani, però mi hanno detto che si trova in un altra parte della città. Così, dopo il mondo dei morti, sono entrato in quello dei vivi. Difatti di fronte alla Recoletà c’è una grandissima pubblicità del fernet Branca che viene consumato a tutte le ore del giorno ed anche mischiato alla Coca Cola (cocktail che io ho diffuso fra gli amici con il nome da me inventato: el cocktail del gaucho macho). Sotto un albero enorme, la cui chioma copre decine e decine di tavolini si può anche fumare un sigaro in santa pace, pensando all’oceano che divide i nostri due paesi.

E proprio pensando all’oceano mi vengono in mente le parole di Marco Calamai (il console d’Italia che durante gli anni della dittatura salvò centinaia e centinaia di argentini dando loro passaporti italiani), dopo la strage nel mediterraneo del 18 aprile dove sono morte 800 persone: quei morti sono i desaparecidos del mediterraneo.

buenos aires recoleta4Oggi l’Italia e l’Argentina parlano sempre meno la stessa lingua ma hanno in comune molte tragedie. Negli anni ‘70 e per buona parte degli anni ‘80 in Argentina si perpetrò la tragedia dei desaparecidos. I generali, a nome delle oligarchie e degli strati ultraconservatori della società, volevano fermare la modernità, che non voleva dire una scelta politica in senso socialista o comunista, ma il rinnovamento del paese. Furono uccise fra le ventimila e le 30 mila persone, buttate dagli aerei nell’oceano. Soprattutto giovani. A questo orrore del passato consumato nell’oceano Atlantico, si è aggiunto oggi un orrore ancora più grande consumato nel Mediterraneo. Mi riferisco alla migrazione massiccia dall’Africa all’Europa di centinaia di migliaia di esseri umani. Ha ragione Marco Calamai nel dire che questi sono i desaparecidos del nuovo millennio che, a differenza di quelli del secolo scorso, muoiono non per ragioni politiche ma semplicemente perché – come dice il papa argentino – cercano una vita migliore.

I giornali argentini riportano queste notizie fra incredulità e indignazione. «Ma cosa fa la ricca Europa per fermare la strage di questi disgraziati» tuona il Clarin del 20 aprile. Qui esiste ancora una emigrazione che proviene dalla Bolivia, dal Perù, ma essa si racchiude in piccoli numeri, niente di paragonabile all’esodo di un popolo, di una umanità infelice dal sud al nord del mondo. Perciò non capiscono le selvagge dichiarazioni della Lega, o perchè l’Europa sia così restia a muoversi.

Sempre sull’onda del tema del mare mi vengono in mente i quadri del pittore Quinquella Martin alla casa museo situata nel quartiere La Boca, la prima patria degli italiani. Qui c’è tutta la retorica deliziosa del tango: gli alberi vestiti con cappottini di lana colorati, le parole del tango Caminito scritte sui muri, la statua di cartone di papa Francesco che benedice da un balcone (anche la sua famiglia arrivò in Argentina sbarcando qui nel porto) i contatori della luce dipinti di mille colori, l’eterno odore di carne alla brace, e poi la statua di Mafalda, di un gaucho, Maradona, ecc. Su tutto questo folclore innocente, svettano i quadri di Quinquella (in origine era Chinchella) il pittore che ha raccontato il porto e le navi. Non ho mai visto un pittore che abbia trattato il tema delle navi con sentimenti forti oscillanti fra l’amore, lo stupore e l’odio. Ma non vi sono solo le navi belle, trionfanti, cariche di merci e di uomini, ma i relitti, le navi in disarmo, le navi naufragate nel tempo e nel mare della speranza. Ci sono navi enormi in costruzione come una torre di Babele e quelle con il fasciame rotto, il legno fatto a schegge come denti che mordono i passeggeri.

buenos aires recoleta3Ci sono i relitti abbandonati su cui oramai cresce l’erba ed il salice che dalla riva invade il legno della nave semicorrosa e poi c’è il disegno di un’ancora, intorno alla quale piccoli uomini si affaccendano. L’ancora è in primo piano, enorme, bella e insopportabile, nodi e catene cercano di issarla dal fondo del mare, ma esse con il suo peso fa resistenza, tirando tutti verso il basso. I nodi delle corde la strozzano per farla morire subito, non opponendo così resistenza, ma essa sprigiona tutta la forza del suo peso, vuole tirare tutti giù nel mare profondo, dove essa sembra trovare la pace. Guardando quest’ancora, mi è ritornata in mente la tragedia del desaparecidos africani nel Mediterraneo. La nave torre di Babele diventa relitto mostruoso e l’ancora della speranza tira giù tutti nel fondo del mare.

Quando ho finito il mio sigaro, capisco che il mare e il tempo hanno molto in comune: tutti e due lasciano poche tracce del passaggio dei nostri corpi attraverso le loro insondabili onde. Restano i relitti di legno, di carne, di ferro a raccontare quello che è successo. Ma come si fa a raccontare una tragedia che nessuno ha visto? Come si fa a raccontare l’orrore se non lo hai mai vissuto?

Sì, l’Italia e l’Argentina continuano ad avere molto in comune, anche se la nostra lingua viene parlata sempre meno.

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