La Domenica: itinerari per un giorno di festa
La vigna di Leonardo
Riprendono vita a Milano, nel giardino della Casa degli Atellani dove abitò, i filari che il grande Maestro di Vinci curava con gusto toscano. Un'eccellente Malvasia di Candia che ha alimentato ricerche scientifiche, storiche e fantasie...
Segnatevi questo indirizzo: Casa degli Atellani, corso Magenta 65, Milano. Perché tra qualche settimana, all’incirca ad aprile, nel giardino di questa dimora quattrocentesca cominceranno a verdeggiare le barbatelle di qualche filare di vite, da poco piantata. E il vigneto che così si ricostituisce avrà l’appeal della Storia. Perché è il vigneto di Leonardo da Vinci e porterà a frutto quello stesso vitigno, la Malvasia, che il genio del Rinascimento coltivava, in quel fazzoletto di terra ottenuto da Ludovico il Moro e a pochi metri di distanza dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie, dove l’artista toscano dipinse il Cenacolo.
Ad annunciare la rinascita della vigna leonardesca è stato un appassionato enologo nonché scrittore e giornalista, Luca Maroni. Lo ha fatto durante il gala de I Migliori Vini Italiani, lo stesso nome del suo Annuario: quattro giorni dedicati ai più accreditati produttori del Belpaese che hanno fatto conoscere le loro etichette nella cornice romana del complesso di Santo Spirito in Sassia. Monumentale agglomerato di edifici quattrocenteschi. Proprio come la milanese Casa degli Atellani, costruzione nella quale si sono stratificati tanti e tali avvenimenti da farne un esempio di ricchezza identitaria dell’Italia.
Dunque, quali traversie ha visto il vigneto di Leonardo? Intanto, fu impiantato nell’antico Barcho Ducale, il luogo dove Ludovico il Moro andava a caccia. Il signore di Milano decise però, dopo la realizzazione della chiesa di Santa Maria delle Grazie, di trasformare l’antico borgo di Porta Vercellina, facendo lì un asse viario. Così nel 1490 comprò dai Landi, conti di Piacenza, una dimora col candido ed elegante portale e il cortile porticato. La donò a suoi fedelissimi cortigiani, la famiglia degli Atellani, originaria, come dice il nome, della Basilicata. Quando Leonardo compì il “miracolo” dell’Ultima Cena, chiese al Moro come compenso un podere attiguo alla casa. Era l’aprile del 1499 e per l’artista quel rettangolo di terra grande sedici pertiche, lungo 160 metri e largo 52 (pari a circa ottomila metri quadrati) segnerà la possibilità di ottenere la cittadinanza milanese ma lo riporterà nel ricordo anche ai vigneti delle colline toscane. Dopo tre anni la cacciata di Ludovico il Moro e l’arrivo a Milano dei francesi causano il sequestro della vigna. L’artista per riottenerla scrive al luogotenente del re di Francia Carlo d’Amboise. Viene accontentato e così medita di costruire nelle vicinanze del terreno la propria abitazione, secondo alcune testimonianze. Mentre altre riferiscono che proprio lì avrebbe lavorato alla statua equestre di Francesco Sforza, padre del Moro. Come che sia, se li porterà nel cuore, quei filari, durante l’ultimo soggiorno oltralpe e nel lascito testamentario li donerà a un fedele servitore e a un ex allievo e amante: l’uno è Giovanbattista Villani, l’altro Gian Giacomo Caprotti da Oreno.
Passano i secoli e passa di mano la casa degli Atellani, ma resta il vigneto attiguo. Lo dimostrano delle foto fatte scattare nel gennaio del 1920 dall’architetto Luca Beltrami che dedica un libro alla Vigna di Leonardo da Vinci completo anche della mappa della coltivazione. Eccola, nello scarno bianconero della pellicola, la pergola spoglia relativa alla porzione di vigna del Caprotti. Un altro architetto, Piero Portaluppi, cui nel 1922 si affida la ristrutturazione della dimora, ha la sensibilità di salvare il vigneto dalla nuova lottizzazione urbanistica e di incorporarlo nel giardino della casa. Così i tralci continuano a vivere fino al 1943, allorché un incendio seguito a un bombardamento alleato sulla città non cancella le piante care al genio.
Fine della memoria? No, perché Luca Maroni coinvolge gli eredi della Casa degli Atellani, la Fondazione Portaluppi e un pool di studiosi guidati da Attilio Scienza e dalla ricercatrice Serena Imazio a cercare sottoterra, dove il fuoco non è potuto arrivare, le radici delle viti di cinquecento anni fa. A Santo Spirito in Sassia l’enologo ha mostrato le foto degli scavi, guidati dalla signora Anna Castellini, una degli attuali proprietari e memore di una certa recinzione della pergola sulla quale inciampò da bambina. La vanga si infila nella terra proprio lì dove lei indica, emergono alla fine frammenti di radici di vitis vinifera non completamente morta. Le analizzerà Scienza, autorità universitaria nella identificazione del dna della pianta, e la Imazio, genetista, avrà il compito di trovare la specie attuale più simile. Alla fine del 2014 Piero Maranghi, imprenditore e altro proprietario della casa, annuncia: «Dopo accurati rilievi nel parco, è stato individuato il vitigno di Leonardo: è Malvasia di Candia, parente di quella di Creta, molto utilizzata nel Cinquecento. La ripianteremo dov’è stata per cinque secoli».
È l’inizio di una nuova vita per la vigna di Leonardo. Con il sostegno dell’Università di Milano, della Fondazione Portaluppi, di Confagricoltura e di Expo 2015 la Casa degli Atellani e i filari del Maestro sono ora illustrati al pubblico in visite guidate. E quando germoglierà la vite gli appuntamenti si moltiplicheranno. Ma la portentosa storia ha anche ispirato un noir. Lo firma Giovanni Neri, che ne Il vigneto da Vinci pubblicato da Piemme (un titolo che echeggia Dan Brown) mette l’ispettore Cosulich, il personaggio nato dalla sua penna, alla ricerca del responsabile della (immaginaria) sparizione del professor Scienza alla vigilia del suo discorso inaugurale per Expo 2015. È stato rapito? E perché? Forse proprio per quei segreti che la terra del pittore del Cenacolo sembra agli occhi di Neri ancora portarsi dietro. Di certo, Leonardo amava smisuratamente la propria vigna. E non è peregrino chiedersene il motivo.