Nella ricorrenza della storica marcia
Selma today
Il bel film di Ava DuVernay ha già provveduto a ricordarci quel 7 marzo di cinquanta anni fa, quando Martin Luther King aprì dall'Alabama “la strada della libertà” per la sua gente. Un cammino ancora lungo, benché a ripercorrerlo oggi sia un presidente nero
È uscito in Italia ormai da qualche settimana a opera di Ava DuVernay, giovane afroamericana, già premiata come miglior regista nel 2012 al Sundance Film Festival con Middle of Nowhere, il film Selma. La strada per la libertà che ricorda la storica marcia dell’Alabama guidata da Martin Luther King il 7 marzo 1965. Sono passati esattamente cinquant’anni da quel memorabile evento. E alla marcia commemorativa di oggi parteciperà anche il presidente Obama il quale otto anni fa affermò che a quella sanguinosa carica sul ponte Edmund Pettus di Selma doveva la sua carriera. «Son qui – aveva detto – perché qualcuno marciò quel giorno. Sono qui perché voi vi siete sacrificati per me». Così il primo presidente nero degli Stati Uniti torna su quella scena assieme a molte migliaia di persone la cui vita cambiò dopo quel giorno. Ma anche per ricordarci che dopo mezzo secolo ancora ci sono in America pregiudizi razziali forti. La guerra non è stata vinta. I fatti che da quest’estate insanguinano il paese con numerose uccisioni di neri, tutti giovanissimi e spesso disarmati, indicano che il cammino è ancora molto lungo.
Martin Luther King che nel 1964 aveva ricevuto il premio Nobel per la pace cercava di convincere l’allora presidente Lyndon Johnson che avrebbe dovuto subito far passare il Voting Right Act, perché votare era ancora un privilegio riservato ai bianchi nonostante fosse stata approvata solo un anno prima la legge sui diritti civili che desegregava i neri. Come poteva accadere questo? Nel film c’è una scena bellissima che esemplifica quale fosse il problema. Una Oprah Winfrey (che è anche una delle produttrici del film) truccata e invecchiata recita il ruolo di un’infermiera che lavora in una casa di riposo e vuole votare. Si reca dunque all’ufficio per registrarsi e l’officer bianco, che ovviamente la conosce, perché anch’egli vive nello stesso paese, attraverso una forma di ricatto indiretto, le dice che votando lei creerà dei problemi di cui i suoi datori di lavoro non saranno affatto contenti. Alla replica della donna che insiste per esercitare un suo diritto, quello di votare, l’officer le chiede di recitare il preambolo della Costituzione americana. Winfrey risponde iniziando a pronunciare le prime parole e dimostrando di sapere il fatto suo, ma viene interrotta dall’uomo che la interroga sul numero dei giudici di Contea dell’Alabama. «67», risponde la donna. «Me li nomini uno per uno», ribatte l’uomo. Al che, visto che l’infermiera non è in grado di rispondere, l’impiegato prende un timbro e stampa sul certificato elettorale Denied. La donna non potrà votare.
A Selma solo il 2% dei neri era allora riuscita a registrarsi e a votare, cioè 300 elettori su 15.000. Questo poteva ancora accadere dopo l’approvazione della legge sui diritti civili. I bianchi avevano infatti tutti i privilegi e tutto il potere di trovare escamotage che mettevano in difficoltà i neri privandoli dei loro diritti. Un vero abuso di potere. Spesso non educati e intimoriti dall’autorità bianca, i neri si trovavano di fronte ostacoli di tutti i tipi in assenza di una legislazione che li tutelasse. Per questo motivo Martin Luther King con la Southern Christian Leadership Conference (Sclc) fece di Selma in Alabama il centro dei suoi sforzi per permettere ai neri di votare nel Sud del paese. Ma trovò una resistenza feroce da parte delle autorità locali. A partire dal governatore dello Stato, George Wallace. L’attacco di alcuni bianchi razzisti il 18 febbraio provocò una reazione violenta della polizia che finì con l’uccidere un giovane diacono nero: Jimmie Lee Jackson. King rispose convocando una grande marcia per la domenica 7 marzo da Selma a Montgomery, la capitale dell’Alabama. Un percorso di 54 miglia. In 600 si presentarono ma non arrivarono lontano perché sul ponte della cittadina le cariche della polizia furono talmente brutali da far denominare quella giornata Bloody Sunday.
La scena ripresa in televisione provocò la reazione di molti americani che, dopo l’approvazione della legge sui diritti civili e al di là del colore e della fede politica decisero di unirsi alla protesta. Ci fu una seconda marcia il 9 marzo, ma quando i protestatari, questa volta molto più numerosi, videro la polizia decisero di girarsi e tornare indietro. Quella stessa notte un gruppo di segregazionisti uccise un pastore protestante bianco, James Reeb. Dopo l’ordine di un giudice federale che permise la marcia che Wallace aveva cercato di impedire, il presidente Johnson sostenne King e le proteste andando a parlare alla televisione nazionale e affermando che avrebbe cercato di far approvare la legge sul diritto al voto al più presto possibile. Al Congresso iniziò dicendo: «È sbagliato, terribilmente sbagliato negare a qualsiasi dei nostri concittadini americani il diritto di votare in questo paese». E subito dopo questo discorso, che sarà considerato in seguito uno dei discorsi presidenziali più potenti della storia americana, annunciò che avrebbe introdotto molto presto una legislazione sul diritto di voto. Il 21 marzo circa 4000 persone lasceranno Selma in direzione di Montgomery scortati dalle truppe federali e dalla Guardia Nazionale per raggiungere la capitale il 25, dove circa 50 mila supporters – bianchi e neri – si erano radunati per ascoltare Martin Luther King. No tide for racism can stop us, furono le celebri parole del reverendo nero. In agosto Johnson firmerà lo storico Voting Rights Act che sancirà finalmente la legislazione per il diritto al voto dei neri.
Il film che ci restituisce un Martin Luther King molto umano, attanagliato da dubbi pubblici e privati, commuove per l’intensità del racconto che non è una cartolina agiografica del grande leader americano, un santino. È un ritratto vero, umano e vibrante. Soprattutto ci fa riflettere sul fatto che alcune decisioni furono controverse e combattute offrendoci, in un susseguirsi di immagini tra documentario e fiction, la consapevolezza che il cammino che il grande leader nero aveva intrapreso era irto di difficoltà e di pericoli per lui e per la sua famiglia. Molte infatti erano state le minacce di morte anche alla moglie e ai figli. Nonostante ciò King continuò perché il suo scopo era di muoversi nell’interesse del bene comune e della sua comunità. Sapeva bene che il tragitto era lungo e le tappe molte e molto difficoltose. Un interesse, il suo, che oltrepassava quello dell’utile particulare e della sicurezza personale che, con la fierezza e con il coraggio che lo contraddistinsero, doveva oltrepassare per raggiungere gli obiettivi che si era prefisso. Senza compromessi, offrendo una grande lezione morale. Affrontando anche la morte che lo raggiunse solo pochi anni dopo ancora giovanissimo e nel pieno della sua attività.