Cartolina da Barcellona
Ritorno a Barrio Chino
Cinquant'anni dopo, la metropoli catalana ha cambiato faccia: il nuovo cerca di dialogare con il vecchio. Ma non sempre l'equilibrio delle memorie, delle speranze e delle illusioni sembra rispettato
Nel centro per l’immagine di Virreina, uno dei tanti antichi conventi restaurati e riconvertiti per risollevare dal degrado e rilanciare il cuore storico di Barcellona, è in cartellone fino a maggio una mostra antologica di Sophie Calle, 59 anni, artista francese di punta che esplora gli ambigui confini della scomparsa inattesa, del camuffamento e dell’assenza, oscillando tra documentazione fotografica e capricci letterari. Tra i suoi tanti lavori ce n’è uno datato 1986 e intitolato Aveugles in cui l’autrice interroga una decina di persone sprofondate nella cecità da un trauma improvviso o da una malattia. «Qual è l’ultima visione che vi torna in mente?» chiede loro, accompagnando con immagini scattate e rielaborate da lei le loro risposte.
Un campionario di foto che tolgono il respiro come un pugno allo stomaco. In una si vede un divano vuoto: è la poltrona della sala d’aspetto dell’oculista che con una iniezione sbagliata ha tolto per sempre la vista a una donna. Sopra c’erano tre ragazzini – ricorda l’intervistata che non riesce più a ricordare le loro figure. In un’altra si intuisce la facciata di un palazzo: la parte bassa è nitida, quella alta si perde in uno sfarfallio indistinto di colori, la perdita della vista – racconta una seconda donna – come una finestra su cui sta calando una saracinesca. In una terza un uomo, corpo massiccio, occhi senza vita, evoca con i gesti, un pugno che si chiude contro la mano, l’apparizione del camion che l’ha travolto, troppo lo choc, tutto accaduto troppo in fretta per consentirgli di archiviare il naufragio.
Depurata dalla tragedia che nella rivisitazione di Sophie Galle l’accompagna, una domanda analoga affiora insistente al ritorno da una settimana di soggiorno nella capitale catalana. Già, quali sono le immagini di Barcellona che per prime, nette come fossero le ultime, mi tornano in mente e a cui posso aggrapparmi per compensare la mia inesorabile cecità di turista, di viaggiatore attempato?
La prima è il ritratto, quasi una caricatura, di un inserviente, baffi spioventi, un grembialone chiazzato d’unto che gli s’impenna sulla pancia, modi e sorriso spiccio, che mi mostra il banco delle pietanze, un brodo, polpette che grondano grasso, alette abbrustolite, tapas di acciughe marinate, polpetti al pomodoro. Una rosticceria affollata con una vecchia insegna di latta, menù a gessetto che penzolano da varie lavagnette, tavolini di legno scolorito, foto di avventori e cartoline alle pareti, odore acido di birra e sudore. Un clima d’antan che ti riporta all’indietro, sovrapponendosi allo spettacolo fin troppo patinato e inodore della Boqueria, mitico vecchio mercato su un lato della Rambla, dove i banchi sono rimasti gli stessi, ma davanti ci sono quasi solo turisti e sopra accanto a prosciutti e formaggi carrellate di bicchierini di spremute e di macedonie a uno o due euro l’uno, spuntini per folle mordi e fuggi in transito. Il prima e il dopo della stessa città che si specchiano, a inquadrature ribaltate. E continueranno a farlo in tutto questo mio viaggio, che in realtà è un ritorno. Cinquant’anni dopo come in un romanzo. Subìto più che volentieri, ma non scelto. Un regalo di compleanno a sorpresa, offerto e impacchettato da mia moglie, che mi ha accompagnato, e dalle mie due figlie, rimaste al loro lavoro. Un modo commovente di ringraziarmi – così l’ho vissuto – per averle tante volte guidate in giro per il mondo. Ma uno scambio di parti comunque impegnativo, che m’inchioda alla mia età e detta in qualche modo il copione dei miei passi e dei miei sguardi qui in un curioso andirivieni nel tempo. Una sorta di corpo a corpo col tempo.
Tra il diciottenne di allora, primo anno di università, rabbia e voglia di capire: inizio anni ’60, Franco era al potere, e si sentiva, Barcellona una città orgogliosa, ribelle ma di mugugni a bassa voce, povera, sporca, malmessa, le Rambla e tutta la città vecchia attorno al vecchio porto in funzione una zona pericolosa e degradata di contrabbando, traffici, furti e prostituzione. E il professionista in pensione di adesso, stesse e altre curiosità, ma idee meno impetuose e gambe più stanche, un po’ meno fretta dentro, nessun bagaglio di nostalgia da rivendicare e difendere.
In fondo, una condizione ideale per prendere le misure a una città che ti ammalia e ti sfugge come Barcellona, abbarbicata come appare sull’elica in moto di un suo tempo segreto che non è l’altroieri stratificato dei suoi monumenti più antichi. Né il secolo fa sghembo, sfavillante e tortuoso di casa Guell e di tanti altri gioielli modernisti, né l’oggi futuribile dello straordinario catalogo di architetture grandi firme fiorite o in via di sbocciare negli ultimi trentacinque anni, ma un andirivieni da un tempo all’altro di vetri, cemento e umanità, condensato in uno stesso spazio che fa da cornice a chissà quale altro domani. Ancora due flash per rendere meglio questa sensazione.
Una domenica che sembra quasi estate tra Barceloneta, il vecchio rione dei portuali, bandiere della secessione catalana appese alla finestre accanto a quelle dello squadrone di Leonel Messi, vecchi a prendere il sole sulle panchine, e il lungomare completamente ridisegnato, ricucito urbanisticamente per le Olimpiadi del 1992 e costellato di nuovi edifici firmati. Dalla sagoma smagliante da spinnaker dell’hotel Vela di Bofil giù giù fino alla Torre Agbar di Jean Nouvel, enorme fallo di vetro e acciaio che spicca in lontananza e di notte diventa una lavagna cilindrica di luci colorate. E in mezzo una modesta invenzione di Franck Gehry, uno squalo di rame luccicante che spalanca fauci di tubolari bianchi come un’insegna da ritrovo notturno. Prima le spiagge erano bagnasciuga deserti e discariche, ora sono affollatissime. Poco importa che il mare – al quale la metropoli, che per secoli ci ha campato su, voltava inspiegabilmente le spalle – non rimanda nessun odore, asettico come una piscina. Che persino la sabbia è artificiale, polvere sminuzzata di cemento. Nella folla, giovani soprattutto. Perché Barcellona è e si esibisce come una città giovane, intrigante, proiettata in avanti, vestita di futuro ma alla mano e alla portata di tutte le tasche, dove impera l’arte mediterranea d’arrangiarsi, dove la notte si esce sempre a bere qualcosa e i tavolini dei bar sono sempre pieni, nonostante la crisi, bastano un paio di tapas, la birra da un euro e mezzo al posto del vino. Per questo è piena di studenti e ragazzi che ci arrivano da tutto il mondo, molti dall’Italia. E se possono ci piantano le tende.
Come Simone, emigrato da un paesino vicino Teramo, che prima faceva l’operaio poi, licenziato, si sta inventando, complice un annuncio su Internet, affittacamere abusivo: «Se vi fermano al portone mi raccomando dite che siete amici di passaggio». Come Beatrice, da quindici anni qui dove voleva fare teatro, invece ha trovato e perso un grande amore e ora si mantiene facendo di tutto: la guida turistica, la cameriera part time in un club del Raval, e da poco, girando e montando filmini per donne che decidono di partorire in casa e vogliono custodirne il ricordo. Come Stefano che ha tentato di fare il gallerista quando a Roma le gallerie chiudevano i battenti e da un anno ha sperperato i suoi risparmi per guardarsi attorno qui a Barcellona. Ora ha deciso di aprire un locale più ibrido: qualche mostra a far da contorno, feste e serate culinarie per far tornare i conti.
La tribù dei giovani che cerca fortuna in questo spicchio di Sud che non è meridione. Un popolo di vivaci comparse, che fa molto spettacolo e appaga d’ebrezza d’adolescenza i turisti più vecchi. Il via vai sulle Rambla come un Luna Park di generazioni. Un alterno mosaico di prima e di dopo, com’è nello stile di questa città. Ma anche un sapore di posticcio che cresce e potrebbe portare al collasso di una metropoli acchiappa turisti.
Per fortuna c’è anche qualche sintomo di resistenza e rigetto. Ti affacci dalla terrazza che corona il vortice di citazioni, luci filtrate e decori barocchi di Palau Guell, capolavoro giovanile di Gaudì, e improvvisamente ti perdi nella vista di un retrocortile di muri scrostati, serbatoi e bidoni dell’acqua, bagni ricavati alla meglio, panni stesi. Quel che resta del Barrio Chino, il quartiere più malfamato di Barcellona. Molti palazzi li hanno buttati giù e sostituiti con nuovi edifici, con nuove piazze. Ma nei vicoli dove il piccone non è ancora arrivato, bloccato dalla fine della bolla immobiliare, sopravvivono la miseria e la vitalità dei nuovi emigrati dall’Oriente e dal Mediterraneo, degli empori arabi al posto dei supermercati, delle puttane e dei papponi che hanno riconquistato qualche angolo di strada. Nessuna nostalgia, una città deve saper cambiare, solo un controsapore di verità. Ha fatto bene Barcellona a tirarsi fuori e risvegliarsi dall’avvilente folklore del suo lungo sonno di povertà, sporcizia, degrado, cattiva politica. A restaurare dove si poteva edifici storici e conventi in disarmo, trasformandoli in sedi universitarie,centri culturali, biblioteche, musei. Spazi di qualità studiati anche a far da argine, come la grande e attrezzatissima filmoteca, un’isola incongrua e fascinosa spuntata nel pantano di malaffare del Barrio Chino. Avessimo a Roma una rete di offerta culturale così ricca, articolata, ben gestita e così frequentata! E un cartellone di iniziative a raggiera, che non puntano sui soliti grandi nomi di sicura cassetta, su mostre chiavi in mano come avviene al Macro e al Maxxi, ma su progetti di esplorazione e rilettura storica del moderno e del contemporaneo, ad ampio spettro e ben costruiti. Il timore è che questi interventi e questi innesti diano il via, appena il denaro ricomincia a girare, a operazioni di pulizia immobiliare ed etnica invece che a esperienze di convivenza e di integrazione.
I teen agers di Barcellona devono aver fiutato il pericolo. Per questo, forse, si sono impadroniti della piazza davanti al nuovo museo d’arte contemporanea, disegnato da Richard Meier, e la usano come una pista per skate. Per questo forse nelle viuzze del centro vecchio, che i turisti intasano come corsie dello shopping, va girando un pittore di strada che copre di colori e figure a getti di spray disegnate con grande vigore su saracinesche e portoni. Firma tutte le sue opere con lo stesso proclama: «Arte es basura», l’arte è spazzatura. Giudizio drastico. Ma che in parte coglie nel segno. E se il problema non fosse l’immondizia, ma la raccolta differenziata? Per non precipitare a cartolina e non perdere l’anima anche Barcellona non dovrebbe prima a poi smettere i nascondersi gli anni e cominciare a selezionare e sfrondare i trofei di modernità modaiola di cui ammanta i palcoscenici della sua corsa verso il domani?