Una "politica" senza memoria
Da Riace a Mosul
Deturpando Mosul gli islamici dell'Isis hanno dichiarato guerra al tempo. Riusciranno a vincere? Forse, nella storia dei Bronzi di Riace c'è la risposta...
La mattina del 16 agosto 1972 il sub romano Mario Mariottini si immerse a poche centinaia di metri dalla spiaggia e vide sul fondo a 10 metri di profondità un braccio umano, attaccato ad un corpo rigidissimo, sepolto dalla sabbia. Mario si spaventò, noi invece restammo meravigliati e la meraviglia dura ancora, anzi si accresce, perché quello fu l’inizio di una avventura che dura fino ad oggi. Il giovane sub aveva trovato due statue greche risalenti al V° secolo avanti Cristo, a Riace, che furono subito messe al sicuro, anche se si mormora che lo scudo di una delle due sia stato venduto ad un magnate americano. Quando nel 1975, 40 anni fa, furono trasportate da Reggio Calabria a Firenze dove subirono un lungo restauro, per essi iniziò la terza fase della loro vita che spero continui oltre la distruzione di tutti i musei, oltre il tempo della nostra galassia.
Mariottini quel giorno aveva fatto un fortunato buco nell’acqua, nessuno si era accorto di nulla ma le faglie dell’inconscio collettivo mediterraneo avevano cominciato ad agitarsi. Se il mare è sempre stato fonte di vita, perché meravigliarsi del parto gemellare avvenuto in un giorno di festa, anzi nel giorno della più grande festa del mare che è il ponte di ferragosto? Solo così si spiega l’incalzante passaparola che prima a Reggio Calabria, poi a Firenze investì i due formidabili maschioni salvati dalle acque. Prima gli amici dei restauratori, poi i professori di storia dell’arte, infine i turisti americani raccomandati dall’Ambasciata andarono a dare un’occhiata al laboratorio, sbirciando dai buchi delle paratie di legno prima dell’esposizione ufficiale. Che avvenne il 15 dicembre 1980 al Museo Archeologico di Firenze, quando i corpi lucidi dei due super macho furono esposti alla pubblica ammirazione, la quale si protrasse per sei mesi facendo morire d’invidia i culturisti di tutto il mondo. Poi nell’estate del 1981 furono esposte al Quirinale di Roma ed a quel punto il trionfo fu totale.
A quel battesimo dove arte e politica si diedero la mano, (cose di altri tempi!) fu invitato il mondo intero e se i restauratori furono visti come banditori dei misteri delle acque, perché ripulendo le statue dalle deiezioni del mare le avevano portate nella famiglia umana, noi meridionali ci sentimmo padri di quei mostri di bellezza, mentre quelli che le guardarono da vicini o da lontano furono padrini di primo o di secondo grado, perché tutti contribuivamo a far nascere di nuovo quei due gemelli di bronzo, frammenti di un mondo naufragato, che si chiama la Magna Grecia.
Io li vidi a Roma, ci andai con amici e mi misi in fila esibendo una austera allegria, proprio come succede nelle processioni del santo patrono di una città. Andammo in gruppo per condividere le emozioni, che a quel punto si erano moltiplicate: non solo lo spettacolo dei corpi imbalsamati dai secoli, ma anche quello dei visitatori che con le lacrime agli occhi dicevano «li ho visti, li ho visti, ma non te li fanno toccare». Inutile dire che l’esposizione mediatica non aumentò di molto la conoscenza del mondo greco, fu però un vero e proprio giubileo dello sguardo.
Perché ho voluto ricordare quell’episodio a quarant’anni dall’inizio del restauro, ma soprattutto dopo aver visto lo scempio fatto nel museo di Mosul dai miliziani dello Stato Islamico? Perché i due bronzi, figli del tempo e dell’acqua, rinacquero grazie alla televisione, che in quegli anni era il forcipe della conoscenza della realtà visibile. Prima lo sguardo stupito di Mario Mariottini, poi quello delle macchine fotografiche dei visitatori, infine le telecamere fecero rinascere un tempo mitico che da 2500 anni sedimenta ancora nei nostri cuori.
Se il ritrovamento fosse avvenuto oggi nel 2015, forse non ci sarebbe stata quell’euforia di massa, perché lo sguardo con cui guardiamo le cose si è frammentato in milioni di telefonini e di desktop mentre allora la televisione era l’unico grande occhio che guardava la realtà a nome di tutti. Sguardo frammentato oggi che va in linea con la politica del terrore dello Stato Islamico, che prima attacca ognuno di noi con immagini balorde e poi pensa di usare le armi contro gli obiettivi militari, quando noi già spaventati a più non posso da loro, non saremmo in grado di sostenere la spallata definitiva.
Negli anni 70, l’uomo da poco era andato sulla luna, i naufraghi si perdevano ancora nel mare, come era successo nel 1978 ad Ambrogio Fogar ritrovato per caso dopo 78 giorni alla deriva da una nave mercantile nell’Atlantico meridionale, non c’era il bancomat ed i talebani non avevano ancora fatto saltare con la dinamite le secolari statue di Budda di Bamiyan. Era un mondo dove lo spazio lievitava con lo sguardo, il tempo con la fantasia e per spedire una lettera non c’era bisogno di una @, ma di un francobollo da leccare prima di essere incollato sulla busta. Non era un mondo felice, ma era meno inquinato e convulso, comunque pieno di speranze. La chirurgia plastica non era ancora uno spettacolo da prima serata, non si esibivano i tagliagole come se fossero i boia del giudizio universale e non si buttavano in pasto alle persone questi orrendi filmati, come si faceva nell’antichità quando nella città assediata si buttavano con le baliste i corpi dei soldati uccisi, le carogne degli animali, per diffondere sia la peste che il terrore.
E allora per capire oggi se quel ritrovamento sia stato solo un grande evento televisivo oppure una reale crescita spirituale per me e/o per l’intero paese Italia, tanto da difenderli con i nostri petti se qualcuno volesse distruggerli, ho immaginato di ributtare in acque più profonde i due puponi venuti da lontano. Cosa perderemmo noi tutti se non ci fossero più le due sentinelle a presidiare una sponda dello stretto? Una rendita per il turismo calabrese, ovvio, ma anche un senso profondo del tempo. Le stanze dei nostri cuori diventerebbero più piccole e i gabbiani della nostra immaginazione non riuscirebbero più a prendere il volo. Non rimpiango il passato ma una cosa non ritrovo più fra noi e meno che mai nei profanatori di musei. Non ritrovo più lo stupore/terrore verso la profondità del tempo. Mentre da un lato ci accorgiamo che la nostra vita è solo un battito di ciglia (e quindi la figura del cecchino del film American sniper diventa tremenda, perché lui davvero con battito di ciglia uccide), dall’altro lato crediamo che questo bicchierone di plastica nel quale sono alloggiati gli anni della nostra vita possa contenerne tantissimi da non finire mai, come i pop corn quando siamo a cinema. Viviamo in un mondo dove l’infanzia dura poco, la vecchiaia sembra non esistere più e tutti aspiriamo a una eterna giovinezza, figlia illegittima della ricchezza, che dovrebbe mantenerci perenni e felici come le statue ritrovate. Certo, potremmo ancora sbarazzarci di loro, e dello stupore profondo che ci trasmettono, in altro modo: fare delle copie di plastica da mettere ad ogni angolo di strada e a questo punto la copia ucciderebbe l’originale e l’idea del tempo profondo ad esso legata. Potremmo anche moltiplicare all’infinito lo stesso modello, riempiendo tutti gli spazi con le copie e quindi lo spazio ucciderebbe il tempo.
Poi mi rendo conto che siamo alberi con rami nodosi, ulivi dalle radici sconosciute, su di noi il tempo scava solchi, come lo fa sull’intonaco dei muri. Il tempo non esiste senza i suoi monumenti, a volte li seppellisce nel profondo del mare, a volte li fa rinascere nel cuore degli uomini, altre volte li sospende nell’aria, in attesa che qualcuno li veda, per farli cogliere quando il tempo è maturo.