Andrea Carraro
Cartolina dal Mercadante

Polvere di Merola

Storia di uno strano Natale a Napoli, tanti anni fa, in fila per la prima del nuovo «Zappatore», il ritorno in scena di Mario Merola davanti alla nuova borghesia partenopea

È stato calcolato che circolavano due milioni di automobili per le strade della penisola nella giornata di quel 23 dicembre. Dunque, facendo un rapido calcolo: un milione novecentonovantanove più il sottoscritto. Già. Ci ho messo la bellezza di quattro ore e mezza per raggiungere Napoli da Roma. Velocità di crociera, trenta, quaranta chilometri l’ora; soste agli autogrill con file chilometriche alla cassa, al banco, perfino alle toilette; banchi di nebbia e una pioggia torrenziale che batteva l’autostrada riducendo la visibilità, almeno la mia, praticamente a zero.

Insomma un inizio non proprio entusiasmante per la mia corrispondenza da Napoli della prima di O ritorno d’’o zappatore con Mario Merola. Prima, ovvia obiezione: potevi prendere il treno, imbecille. La stessa che regolarmente faccio io ogni qualvolta sento di simili esodi biblici durante le feste. Peccato che quando ho provato a prenotare due posti sul treno, il simpatico, spiritossissimo addetto alle ferrovie è scoppiato in una fragorosa risata: «Ma lei sta scherzando?… ah, ah, ah… Una prenotazione per il 23, ah, ah, ah!…». Ci mancava solo che chiamasse i colleghi per scompisciarsi in compagnia. Una mezz’oretta per attraversare l’ingorgo napoletano e raggiungere il mio albergo. Ed eccomi di nuovo nel traffico a bordo di un tassì diretto al Mercadante per assistere alle prove. «Senta un po’, ‑ mi chiede il giovane tassista ‑ ha un’idea di dove si trova ‘stu posto?». «Come, non lo sa?… e allora dove diavolo stava andando, scusi?»… «No, no, la direzione di marcia è obbligatoria… comunque ‘o ssaccie, ‘o ssaccie… Tenevo un’amnesia…».

Per fortuna gli torna presto la memoria. Era solo un modo per attaccare discorso. Il tassista esibisce quell’affascinante miscuglio, tipico del plebeo napoletano, di estrosa esuberanza e di ironica, disincantata saggezza che si ritrova in tante novelle di Domenico Rea. Alla faccia di tutti i decreti e controdecreti, etrae dalla tasca un bel pacchetto di Marlboro rosse, naturalmente di contrabbando, e me ne offre una che accetto volentieri. «Il massimo risultato col minimo sforzo, ecco la mia filosofia!», dice, reggendo con una mano, anzi con un dito, il volante, mentre con l’altra fuma beato, crogiolandosi sulle note dell’ultimo disco di Pino Daniele che fa da gradevole sottofondo alla nostra conversazione. «Guardate, guardate com’è bellillo, pare ‘nu quadro cu’ stu mare ‘ncazzato, eh, nun è vèro?…» ‑ ci fa, indicando gli scuri bastioni, illuminati dai riflettori, del Maschio Angioino. ‑ «So’ sette secoli che se ne resta là, verete cumm’ si porta bene gli anni suoi!… ‘Iss ‘o ssapevano, n’erano mica fiss’… ‘O sapeveno che ci avevano ‘a mori’, ma che mill’anni roppo quel castello se ne steva ancora in piedi a parla’ di loro…».

Guardiamo incantati il celebre monumento, il nero mare burrascoso, la spuma bianca che si frange sul molo. Gli chiedo cosa ne pensa di Mario Merola e della sceneggiata. Immediatamente si scalda: «E ch’aggia’ a penza’?… Che là dentro ce sta tutta Napule, nel bene e nel male…». Credo di capire, ma lo prego di spiegarsi meglio: «Nuie simm’ proprio accussì, tuosti e chien’e sentimènto…». Si spiega ancora meglio, s’infervora. Escono fuori altri binomi: fatalisti e romantici, scettici e creduloni, truffaldini ma ricchi di una sincera e profonda moralità.

mario merola2Entriamo nel teatro dal retro, dove mi aspetta Rossella Serrato, un’attrice della Compagnia “Attori insieme” che ha allestito lo spettacolo. Mi presenta il regista Rino Marcelli, i vari tecnici e attori che si aggirano per il palco. Uno dei figuranti sta accordando un pianoforte, un altro trascina due seggiole impagliate, un terzo viene spedito a prendere le cambiali di scena. Sasà, il tecnico delle luci, sghignazza dal suo palchetto: «Ci so’ le mie, se le vulite… Ne tengo una montagna!»… Gli risponde il regista, in un dialetto strettissimo che mi traduce la Serrato: «No, le tue sono protestate. Si vedono le scritte. Ci servono bianche, immacolate!». Gran risate, e poi un profluvio d’altre battute fulminanti improvvisate lì per lì. Passa un ennesimo attore carico come una bestia di materiali di scena: «Una delle caratteristiche delle compagnie napoletane, ‑ mi spiega l’attrice, mentre ci accomodiamo in platea ‑ è proprio che non ci sono ruoli nettamente separati. Se c’è bisogno, anche Merola si rimbocca le maniche per preparare la scena».

Il che è vero fino a un certo punto. Difatti, poco dopo ecco il mito vivente della sceneggiata partenopea che fa il suo ingresso nel teatro. Attraversa tutta la platea, mastodontico, ingrugnito, torvo, facendo risuonare pesantemente i tacchi sull’impiantito. Indossa una polo rossa attillata, un lungo pastrano aperto sul ventre prominente, scarpe nere di vernice, lucidissime. Subito i lazzi e le risate cessano. Tutti si mettono a fare il proprio lavoro con maggiore solerzia, lanciando di tanto in tanto occhiate apprensive verso il nuovo arrivato, che nel frattempo ha preso posto in platea e osserva serissimo, in religioso silenzio, le prove delle luci e dei fondali. Gli si avvicina Marcelli e parlottano fra loro. Ma si vede subito ch’è Merola che tiene il timone. Pendono tutti dalle sue labbra, pure il regista, che ascolta le sue disposizioni, per poi trasferirle agli attori e ai tecnici, con un tono piuttosto deciso e severo che sembra soltanto ad uso di Merola, giacché prima del suo arrivo rideva e scherzava anch’egli come tutti gli altri. Mi viene in mente quella scena di Goodfellas in cui la voce fuori campo del protagonista spiega, riferendosi al personaggio del capo‑famiglia, del boss, che per comunicare con lui bisognava sempre passare attraverso alcuni intermediari, perché non tollerava che si tradissero le gerarchie e non sopportava di parlare con più di una persona alla volta.

Continuano le prove, viene illuminato l’interno della povera casa dello zappatore. Merola osserva fitto il fondale e sbotta: «‘Stu cazz’ ‘e fondale se move sempre!». In effetti, colpito da una corrente d’aria, il prospetto malconcio della parete d’ingresso della casa tremola come un lenzuolo steso su un balcone ad asciugare.

Ormai manca meno di un’ora allo spettacolo. Una voce dal megafono prega tutti coloro che non appartengono alla Compagnia di abbandonare la sala. Siamo soltanto io e mia moglie di troppo, il messaggio non potrebbe essere più chiaro. Prima di uscire, abbraccio con lo sguardo per l’ultima volta lo splendido interno vuoto del teatro settecentesco appena restaurato, con i suoi velluti rossi, l’affresco della volta, i drappeggi, gli eleganti palchetti con specchiere alle pareti.

Mangiamo in un ristorante accanto al teatro. Ordino al cameriere il menu a prezzo fisso segnato sulla carta: «No, no, chillu è pel fisco!». Poi il conto, trascritto su un foglietto di block‑notes. Cito questo episodio solo perché in esso si può scorgere una corrispondenza con le origini ‑ e dunque con la storia ‑ della sceneggiata: forse non tutti sanno infatti che questa nasce nel 1919 proprio come espediente per evadere le tasse: siccome sugli spettacoli canori gravava allora una tassa suppletiva, il commediografo Ezio Lucio Murolo ebbe l’idea di aggiungere alle canzoni un testo recitato. Viceversa credo sia noto a tutti il succo di questo tipo di rappresentazione: si tratta di un drammone “lacrime e sangue” costretto in una struttura narrativa essenziale: tre personaggi chiave (essa, ‘iss e ‘o malamente), il buono il cattivo e una presenza femminile, che si affrontano in prevedibili vicende di tradimenti, di amori e odii ancestrali, culminanti in una canzone finale di successo. Una struttura, per quanto povera, corredata da parti comiche e da canzoni, quest’ultime atte a rimarcare i momenti topici della trama. La sceneggiata prosperò dagli anni Venti fino alla fine della guerra. Poi s’eclissò per un lungo periodo, per rifiorire proprio con Merola nei primi anni ‘60, nell’ormai celebre “Teatro 2000” a Forcella, quando si facevano addirittura quattro spettacoli al giorno che il pubblico, di estrazione popolare, seguiva con entusiasmo e viva partecipazione, tanto da identificarsi in toto con i personaggi: proprio ne ‘O zappatore, nel momento in cui il figlio ‑ trasferitosi a Napoli e diventato un celebre avvocato ‑ disconosce la madre, il pubblico insorgeva con insulti e minacce. La sceneggiata “dal vivo” ebbe termine agli inizi degli anni ‘80, con patetici tentativi di riportarla in vita al cinema e sul piccolo schermo.

Ma eccoci finalmente all’inizio dello spettacolo. Il sindaco Bassolino è sul palchetto centrale. Lo spettacolo, con tutti i limiti del genere, è rappresentato con gusto e bravura. Ma si tratta d’una “prima”, e a parte gli amici, i parenti degli attori, i giornalisti, il pubblico pagante è costituito per lo più da borghesotti e signore impellicciate della Napoli‑bene. Lo stesso spettacolo, rispetto a quello tradizionale, presenta una struttura più sofisticata e “vezzosa”, arricchita con balletti e raffinate soluzioni scenografiche, tanto che un giornale locale ha titolato: “la sceneggiata si mette il frac”.

Comunque alla fine è stato un successone. La canzone finale ‘O zappatore ha commosso parecchi spettatori e si è conclusa con uno scroscio di applausi che non finiva più. Merola, emozionato, ha inserito una sceneggiata nella sceneggiata ringraziando con la mano al petto il sindaco Bassolino: «Grazie, Bassoli’, stai nel mio cuore…».

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