Alberto Fraccacreta

Pietroburgo, una chimera

Adelphi ripropone il romanzo di Andrej Belyj nella luminosa traduzione di Angelo Maria Ripellino. Ambientato nell’epoca della rivoluzione del 1905, le sue pagine - dove tutto si afferma e tutto si nega - sono tra le più suggestive e folli della Russia letteraria

«Se poi ci si ostina a convalidare l’assurda leggenda che Mosca abbia una popolazione d’un milione e mezzo di abitanti, bisognerà riconoscere che la capitale sia Mosca, perché solo le capitali hanno una popolazione d’un milione e mezzo di anime, mentre le città provinciali non hanno, non hanno avuto e non avranno mai una popolazione così numerosa. Da questa assurda leggenda consegue che la capitale non è Pietroburgo. Se Pietroburgo non è la capitale, allora non c’è Pietroburgo. La sua esistenza è soltanto illusoria. Comunque sia, Pietroburgo non è soltanto illusoria, ma si trova anche sulle carte; in forma di due cerchi concentrici con un punto nero nel mezzo, e da questo punto matematico che non ha dimensioni proclama energicamente la propria esistenza: di qui, da questo punto si diffonde come una fiumana lo sciame delle parole del nostro libro; da questo punto invisibile si diffondono con impeto le circolari».

BelyDa un incipit assurdo e contraddittorio si snodano le pagine di uno dei romanzi più folli della già alquanto folleggiante Russia letteraria: Pietroburgo del poeta simbolista Andrej Belyj (Adelphi, 384 pagine, 22 euro), nella luminosa traduzione di Angelo Maria Ripellino, apparsa da Einaudi nel 1961, è il centro propulsore del frenetico disfacimento di un genere, il miasma gentile per lo spettatore che assiste interito a circonlocuzioni strambe, motivi fecali, scempiaggini da burlesque del Dire. Tutto è affermato: tutto è negato. La città stessa esiste e non esiste, è verità e menzogna al contempo, vive di ombre notturne e mattutini nitori. «Tutta Pietroburgo è l’infinità d’una prospettiva, elevata all’ennesimo grado. Dietro Pietroburgo non c’è nulla». Dal mistero della non capitale aleggia il pungolo dell’allucinazione col conseguente tifone emotivo che imperversa: i fatti sono questi? C’è del vero nelle scarpinate sulla prospettiva Nevskij? Domina il falso? Non siamo in un grande, lungo abbaglio? È sogno perenne? Siamo forse vittime di crudeli fantasmi della realtà che appaiono e scompaiono con le loro ronde improvvise, rendendo la praesentia mundi un’irrealtà esacerbata?

Al di là di ogni ragionevole dubbio sulle cose, il motivo conduttore del romanzo è lo scontro irreparabile di generazione, la rivolta dostoevskiana del figlio contro il padre, dello studente contro l’uomo di Stato. Il giovane Nikolaj Apollonovič, legatosi disgraziatamente a un gruppo rivoluzionario di matrice nietzschiana, dovrà riuscire a far saltare in aria il senatore Apollon Apollonovič, «abietto campione dell’assurdità burocratica». E soprattutto: suo padre. Sullo sfondo di inganni e folgorazioni troneggia il clima teso di un’epoca determinata e tormentata.

Quali sono dunque le coordinate storiche del romanzo? «Pietroburgo è ambientato nell’epoca della rivoluzione del 1905. Vi si riflettono infatti gli avvenimenti della guerra russo-nipponica, gli atti di terrorismo, gli scioperi delle ferrovie e delle fabbriche, le cariche dei cosacchi, gli scontri, i comizi di quei torbidi giorni. A un’attenta lettura tu scopri che alcune figure di questo turbinoso ‘Narrenspiel’, pur nella loro astrattezza, adombrano nebbiosamente personaggi concreti della storia russa» dichiara Ripellino nell’Introduzione. A questi eventi funesti si aggiunge il terrore misto a riverenza nei confronti della Cina e del suo crescente impero mondiale, preconizzato con feroce precisione da Belyj: Pietroburgo dimostra così la sua forza prolusiva, il legame poetico con le alterità, la riluttanza a ogni circoscrizione venatoria.

Pietroburgo copAncora Ripellino: «Nella sostanza ribelle del caos Belyj innesta l’elettricità ghiacciata del raziocinio, raggelando in aridi schemi il violento brulichio dell’informe». Il caldo brulichio della passione si mescola alla rigidità geometrizzante dei palazzi e delle strade in un mix sovversivo di pazzia antropomorfa. Le vie si propagano come specchi e cristalli riflessi, la gente briga agli angoli dell’inquietudine, le chiaroveggenze oniriche ex abrupto s’incarnano e seguono passo dopo passo i personaggi creati ab origine fino ad assumere una fisionomia propria. Il caleidoscopio roteante della narrazione produce bolle ed eritemi sulla pagina: esce un piede, poi una gamba, poi un corpo: finché un uomo con baffi professorali e occhiali a pince-nez non vi osserva e sdegnosamente se ne va via, bofonchiando chissà quale improperio.

Pietroburgo dà così inizio alla ‘dissoluzione tonale’ del romanzo russo. Per forza di una prosa musicalizzata in soluzioni metriche ben definite, à la Puskin, lacerate e laceranti, il testo si frantuma in crepacci surrealistici che ricordano la parallela linea trasmentale di Velimir Chlebinikov e Daniil Charms. «Così il romanzo d’un simbolista ci mostra come da Gogol’ e da Dostoevskij si giunga alle risorse e alle immagini dell’espressionismo» rimarca nuovamente Ripellino con certo acume critico.

Belyj sembra il punto di raccordo tra due linfe vitali della tradizione. Benché per certi versi scontato, il parallelo con Joyce è una forzatura. C’è un irriducibile piano lirico che li divide, come appare da questa semplice, apparentemente innocua frase: «La notte aveva cangianze nere, lilla e turchine, che trapassavano nelle macchie rossastre dei lampioni; si ergevano muri, portoni, steccati, cortili; e ne uscivano strani sussurri. Uh, che umido, che aria molliccia!».

 

 

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