"Cade la terra" pubblicato da Giunti
Mezzogiorno lungo
Il romanzo d'esordio di Carmen Pellegrino mette insieme i vivi e i morti in un villaggio del Sud d'Italia, dove la vita è fatta di normali miracoli quotidiani
Cade la terra (Giunti, pp.220, 14 euro), esordio narrativo di Carmen Pellegrino, è un libro che merita attenzione e – come scrive Andrea Di Consoli nella bandella – è «tassello romanzesco importante della grande letteratura meridionale novecentesca. Il fatto che venga pubblicato ora, – conclude lo scrittore lucano – è solo la dimostrazione che gli orologi non sempre indicano l’ora esatta». C’è molta verità in questa annotazione paradossale, non soltanto perché il libro della giovane e talentuosa scrittrice campana racconta di un borgo abbandonato (l’immaginario paese Alento, ricalcato su Roscigno Vecchia e su altri paesi cilentani dove l’autrice ha vissuto), ma anche per la letteratura che si è depositata in esso: da Corrado Alvaro ad Alfonso Gatto, da Silvio d’Arzo al garfagnino Vincenzo Pardini, da Salvatore Satta a Piovene ecc., molti dei quali vengono ricordati dall’autrice nella Nota al volume dove spiega la genesi del romanzo e le letture (italiane e non; narrative, memorialistiche e poetiche) che l’hanno ispirato. Fra i già numerosi recensori del libro, vorrei citare Massimo Onofri: «L’avevo avvistata su Facebook – ha scritto il critico-scrittore viterbese nella sua recensione su Avvenire – per certi suoi post d’insolita filosofia, per la cura naturale della lingua». Anche Onofri cita Silvio d’Arzo fra i numi tutelari della Pellegrino, parlando con condivisibile intuizione critica di «prospettiva antinichilista».
Beh, cos’altro si può dire di più e meglio? Si può fare un servizio al lettore precisando ancora il contenuto del romanzo. Cade la terra – lo abbiamo accennato – racconta di un paese abbandonato, quasi un “paese fantasma”, mezzo franato, semisommerso dalla vegetazione spontanea sorta attorno alle sue rovine, dove continua a vivere da sola con il suo cane la protagonista Estella – ex monaca, ex istitutrice in una casa di signori, di Marcello, un ragazzo bizzoso e sadico assai ben disegnato nei suoi scherzi feroci, nelle sue disubbidienze, nelle sue bizzarrie da ragazzino solitario e viziato. Estella non solo fa rivivere alcuni personaggi che lo hanno abitato, il paese, nel periodo che va dalla Prima Guerra Mondiale agli anni sessanta, ma li evoca anche da morti radunandoli nella sua casa attorno a una tavola riccamente imbandita. Ma le parti più riuscite ci sembrano quelle che li ritraggono da vivi, ricchi e poveri, signori e cafoni, tutti accomunati da un destino di arretratezza e isolamento, tutti permeati da una pietas autentica (l’antinichilismo di cui parla Onofri) che ne sublima e ne riscatta le ipocrisie morali, le violenze, i soprusi (soprattutto verso le donne, ridotte a uno stato di semischiavitù), l’ostinata superstizione che la fede enfatizza anziché stemperare.
Quella cornice di rovine nella quale gli occhi di Estella, con sensibilità romantica, indugiano, si apre a immagini di poetica intensità, a figure sbalzate con verità e piglio di narratrice. Per esempio nei gesti semplici, antichi, rituali di una donna che partorisce per la strada sotto il sole battente aiutata da una povera vecchina vestita di nero che s’improvvisa levatrice e in cambio le chiede soltanto la cortesia di leggerle la lettera ricevuta dal figlio emigrato in Venezuela perché lei, analfabeta, non può farlo e se la tiene stretta al cuore da due mesi. E la neomamma, con la neonata ancora adagiata sulla mantella nera della vecchina, scorre quelle poche righe vergate dal figlio lontano cercando invano delle parole affettuose da riferirle e alla fine, non trovando altro che un freddo e definitivo congedo, se le inventa lì per lì concludendo con un “vi pensa e vi vuole bene” che le riscalda il cuore. Oppure la tragica fine di quella stessa figlia, Mariuccia, che muore ancora in mezzo alla via per una svista del medico condotto, che confonde le confezioni di medicinali e le inietta una fiala sbagliata di digitale. Oppure la prima, brutale, notte di nozze di Libera Forti con il Guercio, un uomo rozzo e ignorante che è stata costretta dai genitori a sposare per ragioni di interesse, descritta con ruvida esattezza: “dopo essersi svuotato davanti a lei del piscio trattenuto durante il giorno, l’uomo ripose il pitale sotto il letto e, senza ire una parola, le fu sopra prima ancora che lei potesse accorgersene, limitandosi a indicarle con gli occhi la sbarra del letto a cui poteva aggrapparsi”. Oppure ancora il suicidio di Lucia Parisi, che si butta in un burrone dopo aver subito il doppio smacco della violenza paterna e del rifiuto del suo innamorato.