Giustizia e corruzione (al cinema)
La lezione di Durst
Il caso del potente miliardario Usa Robert Durst, arrestato per omicidio, e la gemella vicenda narrata dal film “Foxcatcher” la dicono lunga sul rapporto tra potere e crimine. E se pensiamo a certi ministri italiani...
Alcuni giorni fa è stato arrestato Robert Durst, un – a dir poco – eccentrico miliardario americano, erede di un impero immobiliare di New York che ha ispirato un film e una serie televisiva. Su HBO infatti sono andate in onda le 6 puntate di un documentario/serie televisiva sulla sua vita The Jinx. The Life and Deaths of Robert Durst che si sono concluse proprio il giorno prima del suo arresto. Il miliardario, accusato di aver ucciso tre persone nel corso di tre decadi, arrestato e rilasciato diverse volte per reati minori, tutti molto stravaganti, è finalmente stato catturato e questa volta accusato di omicidio plurimo anche con l’aiuto di prove uscite da quel documentario. Aveva infatti, con il microfono ancora addosso e parlando tra sé e sé in un bagno adiacente allo studio di registrazione, pronunciato le parole che lo hanno inchiodato. «Che cavolo ho fatto? Li ho ammazzati tutti» avrebbe detto. Questa volta la sua permanenza in prigione è assicurata per lungo tempo, nonostante gli avvocati. Perché è così che funziona negli States. Quando vai in galera per un crimine comprovato ci rimani a seconda della gravità del fatto. Meditate gente, meditate!
Questo fatto recente mi riporta ad un film su un altro ricchissimo ereditiere americano altrettanto strano e con la passione per la lotta libera. È raro che il mio giudizio cinematografico si discosti da quello del critico di Succedeoggi, Alessandro Boschi: e dunque anche nel caso di Foxcatcher sono d’accordo con lui in pieno (clicca qui per leggere la recensione). Il film di Bennet Miller è davvero un capolavoro anche se, come scrive Boschi, è «respingente» con un crescendo tragico che si costruisce però lentamente, molto lentamente, seppure annunciato fin dall’inizio. Anche i tempi di questo film che sfugge a ogni caratterizzazione di genere (film di sport, drammatico, crime story? o meglio tutti e tre insieme) hanno una funzione che si collega con il paesaggio disperato e a volte livido della Pennsylvania dove John du Pont, miliardario americano, ornitologo, filatelico e con velleità sportive, possiede la sua tenuta e dove vive con una madre che lo detesta, lo ignora e gli preferisce i cavalli di razza.
Il film che vergognosamente è stato dimenticato dal premio Oscar quest’anno, come Boschi ancora giustamente fa rilevare, racconta un fatto realmente accaduto. Una storia torbida dove il potere, l’ossessione della grandezza americana e la ricchezza di vecchia data – e il regista di Capote e Moneyball è particolarmente efficace nel comunicare l’autorevolezza della ricchezza accumulata dalle generazioni precedenti – si accompagnano al senso di inadeguatezza che ne è la conseguenza. C’è una scena particolarmente difficile da guardare: quella in cui John du Pont – interpretato magistralmente, val la pena ripeterlo, da Steve Carrell, quasi irriconoscibile dietro il naso prostetico, il mento alterato, i denti finti e gli occhi ristretti – vuol dimostrare alla madre di essere un bravo allenatore, un leader. Vuole conquistare una legittimità che non possiede né fisicamente, né psichicamente e che nessun patrimonio familiare gli potrà procurare a dispetto del fatto che può comprare qualsiasi altra cosa. Neanche la madre, un altro mostro sacro del cinema, Vanessa Redgrave, resiste e se ne va.
Una storia tutta americana che si svolge durante la manichea, cupa era reaganiana e che si addentra nella psicologia dei personaggi in modo molto profondo e a suon di sfumature. Sia il personaggio di Carrell, la cui sessualità non appare ben definita e conflittuale sia quello di Channing Tatum, Mark Scultz, il lottatore che praticamente Du Pont si compra, sono esseri umani di serie B, specchio uno dell’altro che vivono all’ombra di qualcuno che amano e odiano allo stesso tempo. Mentre nel caso di John è, come abbiamo visto, la madre, in quello di Mark è il fratello Dave con cui condivide medaglie olimpiche e la passione per la lotta libera. Più grande di un anno Dave è infatti anche l’allenatore del fratello più giovane del cui equilibrio fisico e mentale si è sempre occupato con grande affetto e attenzione. Il rapporto tra Mark e John è strano, ambiguo, complicato. Un rapporto tra due perdenti. Du Pont perseguita il giovane lottatore anche di notte con una sorta di stalking ossessivo e ne mina il già precario equilibrio psichico aggiungendo a ciò l’uso di droghe e di alcol. Miller costruisce questo rapporto con grande maestria costringendoci qualche volta anche a chiederci e se siamo noi a esagerare. Questo è uno dei pregi del film che fa balenare certe idee, ma non le impone; le fa intuire, ma non le annuncia. Il film accenna, ma non per questo le sue allusioni sono meno pesanti, proprio come la ricchezza di vecchia data.
Il film che dà un quadro di quegli anni americani giustamente molto cupo mostra indirettamente anche un lato molto importante da tenere ben presente per capire l’inossidabile capacità americana di risollevarsi dal fango. Come mostrano anche l’elezione di Obama e la ripresa da una crisi epocale come quella del 2008. Alla fine del film infatti, come è ovvio, oltre al fatto che il miliardario americano viene arrestato per il suo crimine, leggiamo che starà in carcere per molti anni. Niente sconti. Neanche per i patrimoni di vecchia data, neanche per chi ovviamente è mentalmente instabile, come du Pont, ma che non è stato giudicato per infermità mentale, con la possibilità dunque di un alleviamento della pena magari da scontare in un ospedale psichiatrico. Condannato fino a 30 anni di carcere, du Pont lì finirà i suoi giorni a 72 anni. Ed è proprio questo che permette all’ America di risorgere dalle sue ceneri. Chiunque commetta grandi sbagli, crimini o gravemente infranga la legge, paga, senza sconti, senza favoritismi, senza compromessi. Soprattutto se è parte della cosa pubblica. Dove solo un sospetto basta per dimettersi o andarsene. Un dato che dovrebbe essere ovvio per tutti, ma che nel nostro paese dove nessuno paga per i crimini commessi diventa un’eccezione da sottolineare perché fa la differenza. Come potremo riuscire a risollevarci dal nostro fango quando le più elementari regole della democrazia non vengono rispettate? E dove un ministro invischiato in gravi processi di corruzione può affermare che non si dimette perché altrimenti darebbe ragione a chi lo accusa? Senza pensare che solo l’ombra di un’accusa del genere possa essere infamante per un servitore dello Stato.