Odetta Melazzini
Radiografia del terrorismo/6

Jihad, le guerre sante

Il termine «jihad», in origine, aveva due significati: applicarsi alla difesa (armata) dell'islam o applicarsi alla difesa e alla diffusione della religione musulmana. Da qui sono discesi equivoci e conflitti

Il termine jihad, oggi comunemente tradotto come “guerra santa” in maniera più o meno impropria, ha un significato ben preciso. In arabo letteralmente jihad vuol dire “esercitarsi”, “applicarsi a qualcosa”. Sostanzialmente jihad, in quanto applicarsi con tutte le proprie forze, ha acquisito due significati, distinti non correlati, «applicarsi con tutte le proprie forze in difesa dell’Islam», quindi «conflitto armato», e «applicarsi con tutte le proprie forze per la difesa e la diffusione dell’Islam», in senso concettuale cioè «pacifica propaganda religiosa». Nel Corano il jihad compare in entrambe le accezioni. Generalmente è abbastanza facile capire dal contesto la sfumatura di significato più appropriata.

Nelle sure del periodo meccano, quando il Profeta era ancora il capo di un gruppo minoritario che lottava contro l’oligarchia pagana dominante, la parola jihad ha spesso il significato di «impegno morale». Nelle sure medinesi invece, dal momento che Maometto era a capo dello Stato e comandava il suo esercito, il jihad ha una connotazione più esplicitamente pratica. In molti passi il significato militare è inequivocabile. «Quando (in combattimento) incontrate i miscredenti, colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati, poi legateli strettamente. In seguito liberateli graziosamente o in cambio di un riscatto, finché la guerra non abbia fine. Questo è (l’ordine di Allah). Se Allah avesse voluto, li avrebbe sconfitti, ma ha voluto mettervi alla prova, gli uni contro gli altri. E farà sì che non vadano perdute le opere di coloro che saranno stati uccisi sulla via di Allah» (Corano, XLVII,4); «Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo e siano soggiogati» (Corano, IX, 29).

crociate3Nonostante, però, in questi versetti coranici vi sia un chiaro riferimento al jihad come conflitto armato, vi sono altre sure in cui questo modello di conflittualità viene abbandonato. «Coloro che evitano i peccati più gravi e le turpitudini e che perdonano quanti si adirano, coloro che rispondono al loro Signore, assolvono all’orazione, si consultano vicendevolmente su quel che li concerne e sono generosi di ciò che Noi abbiamo concesso loro; coloro che si difendono quando sono vittime dell’ingiustizia. La sanzione di un torto è un male corrispondente, ma chi perdona e si riconcilia, avrà in Allah il suo compenso. In verità Egli non ama gli ingiusti» (Corano, XLII, 37-40). «E se qualche associatore ti chiede asilo, concediglielo affinché possa ascoltare la parola di Allah e poi rimandalo in sicurezza. Ciò in quanto è gente che non conosce» (Corano IX, 6). «E su di te abbiano fatto scendere il Libro con la Verità, a conferma della Scrittura che era scesa in precedenza e lo abbiamo preservato da ogni alterazione. Giudica tra loro secondo quello che Allah ha fatto scendere, non conformarti alle loro passioni allontanandoti dalla verità che ti è giunta. Ad ognuno di voi abbiamo assegnato una via e un percorso. Se Allah avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Vi ha voluto però provare con quel che vi ha dato. Gareggiate in opere buone: tutti ritornerete ad Allah e Egli vi informerà a proposito delle cose sulle quali siete discordi» (Corano, V, 48).

Alla luce dei versetti citati è necessaria una precisazione. Quantunque il Corano rivelato a Muhammad abbia per l’Islam un carattere universale, molti dei versetti in esso contenuti si riferiscono alle varie battaglie e vicende strettamente legate al contesto storico dell’epoca. Si possono citare ad esempio quattro versetti della sura Al-‘Anfal: «E quando il tuo Signore ispirò agli angeli: “Invero sono con voi: rafforzate coloro che credono. Getterò il terrore nei cuori dei miscredenti: colpiteli tra capo e collo, colpiteli su tutte le falangi! E ciò avvenne perché si erano separati da Allah e dal Suo Messaggero”. Allah è severo nel castigo con chi si separa da Lui e dal Suo Messaggero …! Assaggiate questo! I miscredenti avranno il castigo del Fuoco! O voi che credete, quando incontrerete i miscredenti in ordine di battaglia non volgete loro le spalle» (Corano, VIII, 12-15). Questi versetti non possono essere citati se non preceduti dalla conoscenza del contesto storico nel quale sono stati rilevati. Il contenuto di questa Rivelazione deve essere inteso inerente necessariamente solo alla battaglia di Badr (624 d.C.), nella quale la tradizione narra che intervennero anche gli Angeli ad aiutare i trecentoquattordici musulmani contro gli oltre mille pagani.

medioevo araboI pronunciamenti coranici sulla guerra o sulla violenza occupano uno spazio relativamente ridotto e i termini «compassione» e «pace» ricorrono molto più di frequente del termine jihad. Allah, secondo il Corano, non è il signore della guerra bensì «il Clemente, il Misericordioso» e, fra i suoi novantanove nomi, si ritrovano attributi pacifici come Mite, Benefico e Clemente. Inoltre, lo stesso termine Islam (sottomissione) esprime l’atteggiamento dell’uomo verso Dio e deriva dalla stessa radice da cui ha origine la parola salam, pace. Per questo i musulmani si salutano dicendo: «La pace sia con te!». Allah sa perdonare e colui che perdona segue l’esempio del Misericordioso.

Del resto, il Corano non è l’unica fonte legislativa islamica. Nei hadith i limiti del jihad, quando si parla di guerra, sono stati ulteriormente specificati.  Essi affermano, in sostanza, che è possibile uccidere solo chi direttamente attacca con l’intenzione e la capacità di uccidere.

Potrebbe sembrare, a questo punto, che il jihad sia un semplice strumento di difesa eppure non si può dimenticare come, nella storia dell’Islam, la proclamazione della «guerra santa» contro apostati e ribelli serva spesso a mascherare ideologicamente interessi terreni e rivalità di potere. Ancora oggi si inneggia al jihad per combattere guerre che con la religione non hanno alcunché in comune e, allo stesso tempo, reagire a questa lotta armata islamica concede troppo spesso ai paesi occidentali di condurre campagne militari nel territorio islamico.

Dar al-Islam è il territorio dove è applicata la legge islamica, e ciò anche nonostante la conquista da parte degli infedeli. Esso è contrapposto al dar al-harb, il territorio in cui è lecito condurre lo sforzo bellico diretto alla diffusione dell’Islam. Sfuggivano a questa fondamentale bipartizione i territori non sottoposti al potere islamico che si assicuravano la pace e la sicurezza con il pagamento di un tributo: si tratta del dar al-sulh o dar al-‘ahd (territori della tregua o dell’accordo). La dottrine islamica contemporanea tende a considerare la contrapposizione tra dar al-islam e dar al-harb come superata: l’esistenza di trattati e istituzioni internazionali universali impone di considerare i paesi non musulmani come dar al-‘ahd, almeno in assenza di uno stato di guerra effettivo. È fondamentale precisare, inoltre, che il concetto di dar al-harb è stato introdotto dalla giurisprudenza islamica (fiqh) e non figura nel Corano. Abu Hanifa (699- 767 d.C.), padre della scuola giuridica sunnita hanafita, coniò la distinzione tra dar al-harb/ dar al-kufr (casa della guerra/dei miscredenti) e dar al-Islam nel VIII sec., quando l’impero islamico era già formato e florido. Si tratta, dunque, di una distinzione in primo luogo politica che, solo in un secondo momento, diventa anche religiosa. Questa contrapposizione non compare nei hadith.

Evidentemente la separazione del mondo in due territori distinti non aiutò certo a mantenere la pace e indusse a ritenere che lo scopo del musulmano fosse quello di portare l’Islam nel territorio degli infedeli; la conseguenza fu lo scatenarsi di un’interminabile guerra religiosa.

All’epoca delle grandi conquiste islamiche, la dottrina del jihad giunse quasi a configurarsi come il sesto pilastro su cui poggiava l’Islam. Combattere divenne un obbligo per tutti i musulmani e, di conseguenza, per la ummah nel suo complesso. Se, inoltre, il dar al-Islam fosse stato attaccato, l’obbligatorietà dell’intervento armato dei singoli membri della comunità sarebbe stato talmente evidente che, secondo la dottrina prevalente, i musulmani avrebbero dovuto impugnare le armi anche senza il proclama ufficiale dell’imam, cioè della massima autorità civile della ummah. Le motivazioni che potevano spingere un imam a dichiarare guerra a un nemico erano essenzialmente due: la difesa del territorio islamico da un’aggressione esterna e l’islamizzazione di zone abitate da infedeli, del dar al-harb.

Questo excursus storico potrebbe sembrare inutile se non fosse che, ancora oggi, parte della giurisprudenza e la corrente dell’Islam radicale utilizzano questa suddivisione dei territori per legittimare la jihad in quanto bellum justum ac pium.

A questo punto occorre chiarire quali sono i nemici da combattere indicati dalla Tradizione e dai manuali classici di legge sciaraitica. Innanzitutto il jihad deve essere portato contro i kafirun, ossia i politeisti, i pagani, gli idolatri. Nel dar al-Islam non vi è posto per loro e anche il Corano è molto esplicito in proposito. I fedeli hanno l’obbligo di combattere i kafirun quando li incontrano nel loro cammino. Afferma il Libro sacro dell’Islam: «Quando poi siano trascorsi i mesi sacri, ucciderete questi associatori ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se poi si pentono, eseguono l’orazione e pagano la decima, lasciateli andare per la loro strada. Allah è per donatore, misericordioso» (Corano IX,5). Per il giurista il kafir è colui che adora gli idoli, è il politeista, il pagano, colui che non riconosce l’esistenza di un unico Dio. In generale sembra che i kafirun debbano essere uccisi, salvo il caso in cui si convertano all’Islam.

CrociateIl reato più grave nell’Islam non è essere infedeli ma apostati, murtaddun. Vi sono due tipi di apostasia: la prima si ha quando un individuo si allontana dalla religione islamica senza abbandonare il dar al-Islam; la seconda si ha quando un gruppo di credenti abiura l’Islam e si trasferisce nel dar al-harb. Nel primo caso teologi e giurisprudenza dichiarano all’unanimità la condanna; l’apostata è perseguitato sulla terra e dopo la sua morte. Il Corano afferma: «Potrebbe mai Allah guidare sulla retta via genti che rinnegano dopo aver creduto e testimoniato che il Messaggero è veridico e dopo averne avuto le prove? Allah non guida coloro che prevaricano. Loro ricompensa sarà la maledizione di Allah, degli angeli e di tutti gli uomini. (Rimarranno in essa) in perpetuo. Il castigo non sarà loro alleviato e non avranno alcuna dilazione, eccetto coloro che poi si pentiranno e si emenderanno, poiché Allah è perdonatore, misericordioso. In verità, a quelli che rinnegano dopo aver creduto e aumentano la loro miscredenza, non sarà accettato il pentimento. Essi sono coloro che si sono persi». (Corano, III, 86-90). La pena prevista per l’apostasia è la morte. Ancora oggi questo reato viene represso duramente in molti paesi islamici.

La seconda forma di apostasia, quella di un gruppo di fedeli, è più grave perché rappresenta un pericolo per l’unità della ummah islamica. In questo caso, vi è l’obbligo giuridico per il Capo dello Sato di proclamare il jihad. Chi si ribella all’imam si ribella a Dio: «In verità coloro che prestano giuramento (di fedeltà), è ad Allah che lo prestano: la mano di Allah è sopra le loro mani. Chi mancherà al giuramento lo farà solo a suo danno; a chi invece si atterrà al patto con Allah, Egli concederà una ricompensa immensa» (Corano, XLVIII, 10).

Gli apostati vengono messi di fronte alla possibilità di tornare all’Islam prima che sia proclamata la guerra contro di loro. I principi del jihad contro i murtaddun sono oggi invocati anche per giustificare i conflitti nel dar al-Islam tra gli Stati islamici. I regimi corrotti che hanno deviato dai principi dell’Islam sono rei di apostasia e devono essere combattuti da tutti i musulmani.

crociate2Vi sono ad oggi numerosi episodi di condanne di apostasia nei paesi islamici. In Sudan il 16 maggio 2014 Meriam Yehya Ibrahim, 26 anni, è condannata per apostasia perché si è sposata con un uomo cristiano, ha un figlio di 20 mesi ed è nuovamente incinta all’ottavo mese. Secondo il tribunale sudanese che l’ha condannata a morte per impiccagione, quindi, Miriam è un’apostata perché ha rinnegato la propria fede musulmana. In seguito a una mobilitazione internazionale per salvarla, il tribunale sudanese ha affermato che verrà giustiziata solo due anni dopo il parto. Oltre all’apostasia, però, Mirian è stata accusata anche di adulterio (e condannata per questo a 100 frustate) perché il suo matrimonio col marito non è stato riconosciuto valido. In Mauritania, invece, il 25 Dicembre 2014 un giovane di nome Mohamed Cheikh Ould Mohamed è stato condannato a morte per apostasia per aver criticato, in un articolo pubblicato su siti internet, decisioni prese da Maometto e compagni sulla sua categoria, i fabbri. L’annuncio della sentenza di morte è stato salutato in aula e in città da grida di esultanza e caroselli di auto. Come ultimo, un esempio molto recente del 25 Febbraio 2015. In Arabia Saudita un uomo è stato condannato per apostasia alla pena di morte, perché si è filmato mentre strappava una copia del Corano e, quindi, per aver abiurato alla propria fede.

Un’altra categoria contro la quale può essere invocato il jihad è quella dei burghat, di coloro che manifestano dissenso nei confronti dell’imam. La dottrina distingue le forme di dissenso: se esso si riferisce a questioni non inerenti all’Islam e i “ribelli politici” sono pochi, possono risiedere nel territorio dell’Islam e, nel frattempo, l’imam deve cercare un dialogo con loro; se i dissidenti sono numerosi e si oppongono con violenza, l’imam dichiara loro guerra.

6. Continua

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Clicca qui per leggere la quarta parte: «Islam, pene e delitti»

Clicca qui per leggere la quinta parte: «La casa dell’islam»

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