Pier Mario Fasanotti 
“La guerra contro i cliché” di Martin Amis

Il povero Truman

Tengono fede al titolo i saggi letterari dello scrittore inglese. Che abbattendo davvero ogni cliché dedicata a Capote pagine fin troppo irriverenti. In compenso ci intrattiene con arguzia su “Lolita” e non teme di smascherare i finti lettori dell'“Ulisse”

Indubbiamente arguto, con fama di arrogante, Martin Amis, scrittore e critico inglese (nato a Oxford nel 1949), potrebbe farci scomodare il solito Freud per capire le sue punte di acidità. Come quella sua stravagante proposta che avanzò due anni fa: l’installazione di cabine telefoniche agli angoli delle strade, destinate alla eutanasia programmata degli anziani, per risolvere il problema dell’invecchiamento della popolazione nei paesi avanzati. Suo padre era il famoso e prolifico narratore Kingsley Amis. Ecco che ci siamo, e anche senza troppa fatica interpretativa: con questa ombra scomodissima Martin probabilmente si deve misurare, sempre in modo che noi crediamo se non doloroso, certamente contorto. In ogni caso Martin Amis, che scrittore eccelso non è, ma nemmeno da ignorare tout-court, sa che cosa sia la critica letteraria. E questa gli offre anche lo spunto per manifestare, oltre a una buona dose di cinismo, idiosincrasie, anticonformismo e intuizioni. Tutto questo lo si deduce facilmente – e piacevolmente per i lettori – dal libro edito da Einaudi, intitolato La guerra contro i cliché (224 pagine, 22 euro).

Amis coverNella prefazione, Amis precisa di aver scritto in calce a ogni articolo l’anno in cui è apparso. Per giustificarsi: «Quel periodo appare ora remoto, quasi irriconoscibile… la mia vita privata era alquanto bohémien, hippy ed edonistica. Diciamo pure tranquillamente debosciata. Ma in fatto di critica letteraria avevo princìpi morali ferrei. Non facevo che leggere libri di critica». Afferma poi che decenni fa la critica letteraria era ormai quasi del tutto confinata all’interno delle università, mentre oggi «sferra il suo attacco contro il talento attaccando il canone… lo strumento più consono è la citazione. Idealizzando, possiamo dire che in genere scrivere significa combattere contro i cliché». Tutto bene, salvo il fatto che parlando della critica letteraria, il nostro Amis si rivela molto anglo-centrico. In altre parole ignorante su quanto è avvenuto, per esempio, in Francia o in Italia. Ha invece tutte le ragioni nell’affermare che «non c’è alcuna metodologia che permetta di distinguere l’eccellente dal non eccellente». Tuttavia è palese a chi conosce la sua biografia l’aver collocato Vladimir Nabokov tra i suoi modelli preferiti. Tanto è vero che ne parla con assoluta competenza, andando oltre – appunto – i cliché.

Di Lolita, Amis dice che «è un romanzo percorso per intero dal sudore del desiderio e della colpa, ma anche dal sudore della morte». In effetti molti dei personaggi, a cominciare dall’adolescente Lolita e dal suo seduttore-patrigno Humbert (colpito da trombosi coronarica), muoiono. E ancora: «È un libro perfettamente riuscito» che ha un «cuore livido e fremente… tutto palpiti e sussulti… un libro anch’esso in uno stato di agitazione pre-trombosi». Per Amis Lolita non è un romanzo tragico, tuttavia, semmai è Lolita a esserlo. Semmai è un testo crudele che parla di crudeltà. E si chiede, svelando la sua ammirazione (o invidia?): «Come è riuscito Nabokov a infilare la storia di questa ragazzina in un simile sproloquio di trecento pagine, in questo libro così divertente da generare imbarazzo, così ispirato dall’inizio alla fine, così incredibilmente osé?». Humbert è un pervertito, un narciso, un sadico borghese che stupra una giovinetta con occhiali ridicoli, sdraiata sul letto a leggere giornaletti stupidi. Nello stesso tempo stupra l’America del cattivo gusto, l’America dei brufolosi adolescenti (tutti rivali? Scomodiamo un’altra volta Herr Freud), «gonzi con la macchina di lusso, abbronzati babbei vicino alle piscine azzurre, tutti muscoli e gonorrea… puzzolenti e dinoccolati».

Eccezionale il ritratto che Nabokov fa del vanesio Humbert: «Per capire debitamente la mia storia, bisogna aver sempre presente la mia fosca prestanza. Il mio fascino mandava in estasi la pubescente Lo(lita) né più ne meno di una certa musica spasmodica». Lolita sopravvive al romanzo, diventa un marchio, come nella pubblicità. Nabokov cala il personaggio Humbert nell’America “cafona”, incolpevolmente giovane come Lolita. Scrive Martin Amis: Lolita e l’America, prima di ogni altra cosa, sono giovani «e hanno la capacità, innocente e poco decantata, di abbandonarsi a occhi sgranati, una capacità che i villaggi svizzeri, laccati e variopinti come giocattoli, e le Alpi già lodate in modo esauriente, non posseggono più».

Martin AmisSull’Ulisse di James Joyce, Amis ha il coraggio di porre e porsi la domanda che tutti hanno in gola e magari mai viene fuori: «Da chi è composto, al giorno d’oggi, lo zoccolo duro dei lettori di questo romanzo? Chi lo legge? Chi si accoccola con l’Ulisse tra le mani? Questo libro – continua il narratore-critico che vive tra Londra e l’Uruguay – viene studiato da cima a fondo, viene aperto e scucito da tutte le parti, è stato ampiamente decostruito. Ma chi lo legge per puro piacere? Conosco un poeta che lo porta sempre con sé, in valigetta; conosco un romanziere che la sera, prima di coricarsi, lo consulta brevemente; conosco un saggista che lo ostenta spiritosamente sulla mensola del bagno. Ma queste persone lo hanno letto per intero? Per la verità l’opera di Joyce non va incontro al lettore. Tutti sanno che Joyce è uno scrittore per scrittori… un genio… lo ha scritto perché gli piaceva, punto e basta. È una cosa che tutti gli scrittori fanno, o aspirano a farlo, o farebbero se ne avessero il coraggio. Joyce è l’unico che l’ha fatto con tanta dissennata maestria».

C’è poi, in questa collezione critica, il resoconto dell’incontro-intervista di Amis con Truman Capote. Toni irriverenti. Anzi, francamente maleducati. L’autore di A sangue freddo è malato e stanco, «decisamente sottotono», eppure accetta di incontrare quel giovane. Amis infierisce: «Per carità, sono tentato di dire, lasciamo stare l’intervista. Chiamiamo un’ambulanza. O lo porto io in ospedale direttamente nella mia valigetta, penso osservando quell’omino bambinesco, scalzo, in camicia da notte, un metro e sessanta per quarantacinque chili scarsi». E poi: «Di punto in bianco, Truman scompare per una lunga e complicata seduta in uno dei bagni adiacenti (la prima di varie e rumorose visite nel corso delle due ore dell’intervista)». Capote, anzi «il povero Truman», ha cominciato a scrivere da giovanissimo racconti «con la loro stucchevole ambientazione meridionale e la presenza di personaggi grottescamente cafoni»… a metà carriera ha cominciato a scrivere satire metropolitane e «ha dimostrato di essere in grado di ascoltare New York con la stessa attenzione con cui era riuscito ad ascoltare New Orleans» (sua città natale, ndr). Ebbe un litigio forte con Gore Vidal, insultò Jackie Kennedy e sua sorella minore, la principessa Lee Radziwill. La quale si vendicò, parlando di Vidal e Capote, dichiarando con nonchalance a un giornalista: «Sono due checche. Una cosa disgustosa». Altrettanto lo è la cronaca che Amis ha fatto dell’incontro con Capote. O no?

Facebooktwitterlinkedin