Cartolina dal Portogallo
Il dio di Lisbona
La città delle contraddizioni, delle illusioni e delle contemplazioni è ancora una volta lo specchio di un'Europa che non riesce a comprendere la propria complessità
Si può stare in un qualunque luogo di Lisbona ‒ digamos assim, seduti ad un caffè nella spianata accanto all’Oceanario nell’ultra-moderno Parque das Naçoes ‒, intenti in quello che nel proprio luogo di residenza si chiamerebbe “ingannare il tempo”. Cosa però in verità possibile e pensabile solo in un luogo che non sia il nostro vero e proprio luogo di residenza (ovvero, come usano dire qui, “o lugar onde nasceu”, “il luogo natale”), bensì quello di un più o meno lungo (lungo, possibilmente, anche la vita che ci resta da vivere) vero e proprio anno sabbatico. Ma cosmico. Vivere in luogo così senza aver (temporaneamente) l’obbligo di lavorare è un po’ così. Espone fatalmente all’affacciarsi su delle autentiche incommensurabili immensità di tempo. E peraltro a Lisbona assolutamente ordinarie, nel senso del quotidiano. Visto che erano proprio quelle sulle quali continuamente gettava lo sguardo il nostro Fernando Pessoa, appena solo sbirciando dalla finestra di una delle sue innumerevoli case (innumerevoli quasi quanto i suoi eteronimi) oppure svoltando l’angolo in una delle sue continue flaneries. Si riferirono proprio a questo peraltro le parole pronunciate poco prima di morire a Rua Coelho Rocha (a due passi da casa mia, tra Amoreiras ed Estrela): “ I know not what tomorrow will bring”.
Ebbene si può stare così seduti in un luogo qualunque di questa città, ed essere indotti nella solita tentazione della contemplazione. Questa volta essa di presenterà nella forma di una giovane donna seduta ad un tavolo poco distante dal nostro. Se ne sta seduta e mangia la sua insalata con gli occhiali da sole tra i capelli ed evidentemente immersa nei suoi pensieri. Mastica in modo davvero impeccabile. Con la bocca rigorosamente chiusa, mentre il naso, bello perché affilato ed irregolare, la accompagna. Che sia immersa nei suoi pensieri lo tradiscono gli occhi, di un bel nocciola trasparente, che regolarmente di perdono nel nulla in alto da qualche parte.
In realtà il motivo della mia contemplazione è però ben altro. Ho sul tondo tavolino davanti a me il libro aperto con la traduzione in tedesco (Stein) dei “Nomi divini” dell’Areopagita. Insieme ad una tazzina di caffè già mezza vuota, i resti di una torta di mele ed una scatola di sigari Clubmaster. E la mia mente è scossa da brividi davanti a quel Dio dell’Areopagita, che è un Nulla eppure è il Tutto. Ovvero è tutto ciò che mi circonda, inclusi me stesso e quella sconosciuta donna con la quale nulla ho a che fare.
Avevo avuto il sentore di questo il giorno già prima al cospetto, come sempre, della mia Basilica da Estrela (mi muovo di rado dai suoi paraggi!). In realtà un’immensa altura di candida panna-motata, intarsiata di guglie immacolate che letteralmente irradiano sotto un cielo impressionantemente azzurro.
E così, con questa presenza immediatamente dietro il mio sguardo, di colpo ogni cosa, tra le maglie del reale, diviene un brulicante ma infinitamente armonico viavai sub-atomico, e che ha esattamente lo stesso fulgore di quel Dio onnipresente ma invisibile. Ed ora però intessuto della miriade di (così terrene) pagliuzze d’oro di una bella domenica mattina di Marzo lisboeta
Tutto, significa tutto. In ogni possibile aspetto, di qualunque genere. Dunque qui c’è tutto!
È questa la vita? Ed è questo il mondo? È quello che mi chiedo. E chissà perché il masticare attento ma assorto di quella donna, al centro del vasto brulicare tutt’intorno, mi risponde di sì. È tutto!
Il Tutto è il sole che batte sui petti bianchi, sui capelli che volano per poi posarsi, sulle labbra che precipitose sussultano scoprendo denti bianchi. Mentre in mezzo al tutto sfrecciano gabbiani. Il brulicare è vertiginoso incrocio di traiettorie. È tutto-accadere.
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Ma, appunto, tutto significa tutto. Vi è dentro tutto. Anche la sordida e maleodorante quotidianità sempre covante in agguato nel retroscena. È l’ordinario che intanto sferraglia per il mondo: metallico, pigramente cigolante, lento e pesante. Esso è fatto di notizie e notiziole apprese qua e là. Indifferenti , deprimenti, interessanti o addirittura esaltanti
Una donna non riesce a sapere perché mai la Sicurezza Sociale è certa che lei ha un debito non pagato di 1390 euro. Che la donna non ha invece mai ricevuto. Ogni giorno si contano ben 470 aggressioni ai medici dei servizi di urgenza. E nel 2004 il 16 % dei portoghesi non ha potuto acquistare i farmaci loro prescritti. Il PCP ha portato l’altro giorno per strada moltissima gente, con bandiere rosse e tutto. Dicono che la pazienza è agli sgoccioli. Ma lo dicono con flemma lusitana, visto che i greci la pazienza già l’hanno persa ed a ragione. Flemma però voluta, visto che, per non correre il tremendo rischio di sembrare “spagnoli”, i portoghesi credono fermamente di essere inglesi. Ma ovviamente non lo sono! Nel Jogo da Santa Casa (il nostro Lotto), i portoghesi non puntano di 2-4 euro per volta. Ah, e i debiti non pagati da Passos Coelho, il primo ministro. Come mai avrà fatto a dimenticare la scadenza? Ora saranno certamente guai!
L’ufficio delle Finanças di Baixa, in perfetto stile partenopeo, mi chiude la porta in faccia alle 10,45. E dire che in generale sono efficientissimi. La domenica si festeggia per strada con tanto di una finta “Dona Amalia” ed anche tanto di ragazze con il culo quasi di fuori.
Il Portogallo cerca occasioni a Cuba. Veniteci, o imprenditori. Intanto ricordiamo il grande Soto Mayor campione di salto in alto nel ’93. Intervistato, ammette ahimè di non saper dire se è meglio Messi o Cristiano Ronaldo. Molti portoghesi se ne tornano dal Mozambico nel paese “onde nasceram”. A Maputo, e perfino sulla costa, gli affitti sono da capogiro. Intorno a 2500 Euro, mentre gli stipendi si aggirano sui 3000. Ma che bello che è questo paese di immensi acquitrini e spiagge con immense dune. Sembra il Brasile!
Nella casa di Pessoa, a Rua Coelho Rocha, si chiederà ai bambini di giocare inventando nuove parole. L’altra sera, nel Jardim da Estrela, da uno schermo collocato nella Cassa Armonica rimbombava nella penombra un cartoon in lingua francese. E di giorno famiglie intere si erano riunite lì per fare pic-nic sui prati. Sciami di bambini pazzi di gioia. Scopriamo anche che c’è un acquario ben più fascinoso dell’Oceanario: è antico, austero, e porta il favoloso nome di “Aquario Vasco da Gama”. E che belli i tamburelli quadrati dell’Alentejo, suonati in ritmo binario e ternario per una Grande Madre chiamata Nossa Senhora o anche Lua. È una vera tammurriata, ma non lasciva ed ammiccante come quella orgiastico-pitagorica partenopea. Ma la Madre mediterranea, la Grande Dea Bianca cretese (Graves e Kerenij), è la stessa. Pare infatti (Graves) che, per Spagna e Portogallo, i Danai, scacciati dagli Achei, migrassero un tempo riparando in Britannia ed Irlanda. Mistura celto-mediterranea. Infine nordica.
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Si è così! Una Lisbona ordinaria e sorprendente. Può essere di colpo splendente e poi rifluire prima o poi nel suo ordinario grigiore celtico. Allora tutto puzza di umido Oceano, malinconiche ebbrezze da birra Sagres, e zuppa di nabissa. Ed il caldo e secco Mediterraneo svanisce. Allora gli occhi della città si svuotano e diventano acquosi ed imploranti. Vi galleggia quella tale delusione atavica, che poi fa sporgere indignato ma tremante il celtico labbro inferiore. Come quello di un bambino che non si sa se stia per scoppiare o montare su tutte le furie.
E però “qui ancora si canta!”, dicono quelli con il tamburello. Si canta quello che in Brasile sarebbe poi diventato chorinho ed orgogliose schitarrate di gaúchos tribolúdos (vedi l’epico Capitão Rodrigo di Erico Verissimo). E si canta anche quello che da noi pure ancora si canta nelle aie e nelle piazze dei paesini dell’Appennino. Dove gli uomini ballano come indiavolati e le donne si offrono se capita l’occasione.
E questo ci rende tutti vicini. Molto vicini!
Lisbona ed il Portogallo sono anche questo: un eterno crocevia. Storico e geografico.