Fa male lo sport
Ieri, Moggi e domani
Il reato fu commesso, ma ormai è tardi: tutto prescritto. Luciano Moggi, Antonio Giraudo e tutti gli altri non sono del malfattori. Semplicemente sono italiani. Cittadini del Paese della Corruzione Perenne
Restituiamo alla Juve anche i due scudetti che le furono tolti e facciamola finita. Perché è giusto così, perché tutto torna in questo straordinario paese dove i giudici, i giudici della Cassazione, non possono che ratificare quello che dice la legge fatta dai politici malandrini: reato prescritto. Nove anni per giudicare un delitto sono troppi, il crimine c’è ma gli imputati vanno liberati da ogni pena. Si tratti di Silvio Berlusconi o di Luciano Moggi. Calciopoli è stata cancellata. Anzi no. Continua tra revisionismi, rivendicazioni e richieste di risarcimenti (la Juve già vuole dalla Federcalcio oltre 400 milioni di danni e i due scudetti: assisteremo ad altri giri di valzer, pressioni e porcherie varie).
Come Tangentopoli. Mario Chiesa e Bettino Craxi erano degli scolaretti con in mano il giglio della prima comunione rispetto a questi signori delle male cronache attuali, gli Incalza, i Perotti, gli ultimi in ordine di entrata sul palcoscenico, quelli che banchettano ai tavoli delle Tav e delle Expo. Perché la corruzione è la linfa vitale dell’Italia. E questi nuovi esemplari di boiardi non sono gli epigoni di quelli colpiti da Di Pietro e Colombo. Sono molto di più e quella virtù italica, la corruzione appunto, non investe solo e soltanto la classe politica, poverina, come allora, ma alimenta tutti quelli che abbiano una scrivania e un po’ di comando, dal piccolo funzionario comunale al ministro, al magistrato, all’ingegnere, al manager, al dirigente sportivo. Ogni tanto si scopre qualcosa, spesso tutto finisce in una bolla di sapone gonfiata di sdegno. Con buona pace di Travaglio e del travaglismo, malattia infantile del berlusconismo.
Dunque Moggi, Giraudo e compagnia bella hanno fatto telefonate ai capi del calcio italiano e a quelli che dovevano decidere quali arbitri mandare sui campi in modo da condizionare risultati, scudetti e retrocessioni. E sono stati così bravi che neppure i magistrati napoletani – che arrivano al sistema Moggi per caso indagando sulle scommesse – sono riusciti a sapere tutto dalle intercettazioni perché Lucianone usava e faceva usare agli amici degli amici decine e decine di schede telefoniche estere, cioè criptate, in modo che il brigadiere che ascolta e poi il magistrato che deve decidere non possano capire un tubo. Moggi ha minacciato Pairetto e Bergamo di farli cacciare dai vertici arbitrali quando le disposizioni che partivano da Torino non venivano eseguite. Moggi ha chiuso in uno stanzino dello stadio di Reggio Calabria l’arbitro Gianluca Paparesta perché non si fischia contro la Juve e lo dice pure al telefono: «Ho chiuso l’arbitro nello spogliatoio e mi sono portato le chiavi in aeroporto…». Moggi lo ripete anche al malcapitato, di brutto al telefono (quanto chiacchierava al telefono, il nostro), anche se non si ha la prova (ma che vuoi che sia) che all’altro lato ci sia proprio lui, Paparesta: «…Ma che hai anche il coraggio di chiamarmi?… Ah, Gianlù, guarda stavolta è l’ultima volta… ma tu… ma tu mi sei più antipatico… e non ho voglia di parlarti». Ed è giusto così, fa bene a trattarlo come una pezza da piedi perché quello non ha avuto nemmeno il coraggio di scrivere una riga di ciò che ha subito sul referto della partita. Moggi ha concordato con i vertici arbitrali le designazioni e quindi si mette a scherzare ad indovinare con la segretaria chi sono gli arbitri delle partite di Coppa Italia, elenco battuto poco prima dalle agenzie: «Vediamo se riesco ad indovinare? – fa il vezzoso con la donna che l’ha chiamato per leggergli l’elenco – Uno è Ayroldi». «Ah, lo sa già?» fa quella ridendo. «Roma-Inter, Gabriele». «Esatto». «Milan… Palanca». «Palanca sì… coincidono». «Sono un indovino, eh?». Moggi ha deciso anche per gli altri club riuscendo persino a mettere in cattiva luce presso l’acerrima nemica della Juve, la famiglia Sensi, uno come Franco Baldini, che gli ha fatto sempre la guerra. Vogliamo giudicarlo un reato, anche questo?
Lui era un indovino, un poveraccio chiamato dagli Agnelli a intrallazzare in favore di uno dei club più prestigiosi del mondo. Uno che alza il telefono (come al solito) e parla con Aldo Biscardi e gli dice quello che deve fare durante la trasmissione, il mitico e sguaiato Processo del lunedì: «Zeman lo faccio stanga’ da Riva…» fa il giornalista i capelli di rosso dipinti. E Lucianone: «…Andiamogli addosso di brutto». Perché poi ci sarebbe da aprire un capitolo a parte sui giornalisti, si intende quelli che stendevano tappeti rossi sotto i piedi dell’ex funzionario delle Ferrovie alla stazione di Civitavecchia, cresciuto all’ombra di Allodi. Ma li vogliamo processare anche loro, i giornalisti? Via, non si fa dimettere un sottosegretario che riceve un avviso di garanzia, vogliamo mandare alla sbarra dei pennivendoli o mezzibusti molto ruffiani?
Questo e tanto altro c’è stato: un’organizzazione perfetta, capace di uscire indenne, appena colpita da qualche schizzo di fango. Un’organizzazione che vive ancora oggi probabilmente. Con altri protagonisti, più raffinati di Moggi e tecnologicamente avanzati, che si nutrono dell’aria infetta che si respira.
La cosiddetta giustizia sportiva ha stangato la Juve, ha stanghicchiato qualche altro club facendosi poi perdonare l’ardire attraverso l’applicazione metodica dello “scontificio”. Federazione e Lega hanno tentato così di rifarsi immagine e verginità dopo aver tollerato ogni cosa. Altri circoli, apparentemente più presentabili, hanno deciso poi di appiccicare uno scudetto sulle maglie dell’Inter.
Calciopoli non è stata una invenzione, Calciopoli c’è stata come Tangentopoli come le tante Terremotopoli, dal Belice all’Aquila: una infinita Scandalopoli. Tutti colpevoli, nessun colpevole. È il sistema paese, il calcio non può restarne fuori. E sia chiaro che Moggi è un uomo d’onore.