Una bella mostra a Roma
Le forme insoddisfatte
Angelo Colagrossi dipinge mescolando cimeli riconoscibili (bottiglie, scarpe, dischetti di computer) e fantasmi di archetipi ancestrali: un modo per raccontare il flusso costante del vivere
Raro che un artista riesca a definire il senso profondo delle opere che espone, compito che quasi sempre viene demandato all’intervento esterno di un critico, a un punto di vista che spesso prescinde dalla sincerità, dalla necessità dello spunto che le ha dettate. Angelo Colagrossi, 55 anni, trenta di solida carriera alle spalle, al contrario, nel breve testo inserito come prologo nel catalogo della mostra con cui si ripresenta al pubblico nel salone di Plus arte Puls in viale Mazzini 1 di Roma, ci conduce senza camuffamenti nel cuore stesso della sua pittura che ci dice «si è andata a strutturare secondo un’approssimazione, un’incertezza propria dell’instabilità, del continuo movimento». «Le forme della mia pittura – aggiunge – non si precisano in una palese compiutezza, sfuggono sia alla dimensione narrativa che precisione descrittiva. Le definirei insoddisfatte, stampate su uno schermo piatto che non si spinge mai in profondità e le costringe rassegnate ad un qui e ora, una ribalta temporanea».
Che cosa sia questo schermo piatto nel quale ci costringe a guardare per trovare una chiave d’accesso alla ventina di carte di varie dimensioni, che espone per l’occasione, a riassumere gli ultimi anni del suo lavoro, Colagrossi lo lascia alla nostra immaginazione. Un computer? Una televisione? La vetrina di un negozio, come sembrano suggerire i titoli di una serie di lavori?
A noi sembra piuttosto il crepitio sfavillante di un ultimo rotolo di pellicola che sta prendendo luce. Un film che registra il transito, il flusso delle forme ma toglie loro la messa fuoco, le obbliga a galleggiare nel vuoto e a denunciare che è proprio quel vuoto frusciante, sbiadito di pennellate opache e colature di colore, a connotarne la presenza. Un film che ne evoca un altro, distante nel tempo. Ricordate la scena finale di Zabriskie Point di Antonioni, quell’esplosione, solo sognata probabilmente che trascina in alto nel cielo e poi giù verso terra una pioggia di oggetti, di cose, di merci, colori? Ecco, Angelo Colagrossi ci immerge in questa pioggia di forme insoddisfatte, nella banalità della loro presenza, che in parte ci governa e in parte ci ammalia, mescolando cimeli riconoscibili, bottiglie, scarpe, dischetti di computer persino memorie laccate di tramonti e altri spettacoli di natura a fantasmi di archetipi ancestrali come quelle sagome di donna, le maschere dei volti come statue classiche ma anche sculture di altrove orientali. Istanti che è impossibile trattenere. Ci riesce solo l’artificio della ripetizione, fermando il tempo della visione nello spettacolo di una serie di teste femminili graffiate e smaltate a colori vivaci che ha appeso al muro come ultimo atto della sua mostra.