Vincenzo Nuzzo
Una riflessione a freddo sul caso del momento

Dov’è la verità?

La sentenza della Cassazione sull'omicidio di Meredith Kercher è uno di quei casi di scuola che mettono in crisi l'idea stessa di giustizia. E non solo in senso filosofico

E va bene, può anche darsi che, come si dice nelle frasi di prammatica, «giustizia è stata fatta!». Dopo la battaglia al processo per l’omicidio di Meredith Kercher, però, resta la distruzione. E ciò principalmente perché a fronte di cose come queste (peraltro ricorrenti in tutt’altro che pochi casi), si è costretti a ragionare con la logica del «se è vero che…». Ebbene qui parla solo un laico e non certo un giurista. Ma si tratta di un laico afflitto dal tremendo vizio di pensare. E quindi portato a chiedersi (sempre e davanti a tutto) se ancora, nella corrente prassi, esista per davvero ancora un barlume di pensiero. In coloro che fanno, ma anche in coloro che guardano fare.

E se lo chiede in primo luogo davanti alla prassi alla quale è stato formato, quella di medico. Così come poi davanti alla prassi dei giuristi. Perfino è portato a chiederselo (ed angosciosamente) davanti alla prassi degli stessi filosofi.

Dunque, è di certo ammissibile che nella prassi giudiziaria si proceda sempre e comunque secondo il principio del «se è vero che…». Ma come può il laico non restare attonito davanti ad un caso in cui due persone risultano davanti ai tribunali essere ripetutamente colpevoli, poi innocenti e poi di nuovo colpevoli. Per poi alla fine essere giudicati per sempre innocenti da una Corte di Cassazione ? Come può il laico non essere colto da puro e semplice orrore davanti a tutto questo?

L’unica conclusione che egli ne può trarre, infatti ‒ essendo egli all’oscuro dei sottilissimi “distinguo” della legge scritta e dei suoi interpreti (aggravati dai giudizi dei praticoni i quali sorridono impietositi davanti a chi ancora crede che possa esistere una Giustizia oggettiva ‒ così come anche una Verità oggettiva), è che, quando questi due individui sono stati condannati, lo sono stati con prove del tutto insufficienti. Lasciamo stare quello che è successo nel caso delle assoluzioni, caso che pone urgenze del tutto diverse. Lo dimostra in modo agghiacciante la frase di Sollecito: «Finalmente mi hanno creduto!».

Signori miei ‒ e qui di nuovo diviene di importanza critica il pensare (da parte di tutti noi, giuristi inclusi) ‒ un commento come questo ci impone di “ri-pensare” completamente la macchina giudiziaria e la sua logica. Ma in modo oggettivo, e quindi totalizzante, cioè del tutto dall’esterno. E quindi (direbbe il filosofo fenomenologo) in forza di una vera e propria “riduzione trascendentale”. Ovvero in forza di una messa tra parentesi di tutte le credenze teoretiche (ingenue o meno), per poter così guardare ai fatti nella loro essenza. Non dimenticando però che al di sopra della suprema istanza di giudizio così generata si colloca comunque una Verità ben più alta di essa.

«Finalmente mi hanno creduto!». Che cosa mai può significare? La prima cosa che viene in mente al laico (ora nella posizione però di chi giudica i giudicanti) è che si può essere condannati (ripeto, lasciamo stare l’essere assolti) in base a pure congetture sui fatti. Non invece solo e soltanto in base ai fatti. E le congetture risulteranno allora, alla prova di fatti come questi, avere svolto un ruolo assolutamente primario e prevalente.

Decisamente viene in mente il famoso scenario letterario, emblematico per il Diritto, della condanna di Dmitrij Karamàzov. Ma soprattutto, molto più terra terra, c’è da vedersi letteralmente gelare il sangue nelle vene! Specie se si pensa alle immagini proprie di storie come queste: ‒ alle pose tribunesche di pubblici ministeri accigliatissimi a causa della sacra hybris delle proprie incrollabili convinzioni; e inoltre all’intero, fetido ed indegno, teatro mediatico che poi emana olezzando da tutto questo.

Dunque qui manco per niente «giustizia è stata fatta!». Qui è stata invece tristemente rappresentata un’altra delle più umilianti pieces teatrali dello squallore desolante della vita del nostro paese. Qui non ha vinto nessuno. Qui abbiamo perso tutti. Ancor più se, essendo costretti più disperatamente che mai ad applicare la logica del «se è vero che…», Amanda e Raffaele invece colpevoli dell’omicidio di Meredith Kercher lo erano (e lo sono) per davvero. Cosa di cui ci tremano i polsi solo a considerarne la pura ipotesi. Dunque, questa è una tremenda stigma di infamia per il nostro Paese. Pensiamoci. In nome di Dio, ricominciamo a pensare. Tutti: ‒ giuristi, medici, ingegneri, filosofi, gente comune!

Ma non è possibile ricominciare a pensare senza che si ricominci a pensare ad una Verità al di sopra di tutto (ne sostenemmo la necessità assoluta in due nostri saggi sul Diritto dal titolo Del potere, della libertà, del diritto e della guarigione – Considerazioni a margine di Filosofia della Rivelazione, eIl silenzio significativo nel diritto, ovvero il silenzio vitale e raccolto dell’inerme). E questa Verità re-introduce la morale come criterio dirimente e fondamentale.

Filosofi come Nietzsche ed Heidegger, decisamente e senza ombra di dubbio, ebbero completamente torto nel considerare superati valori ed ideali.

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