Dal Tejo a Fatima e ritorno
Diario portoghese
Dai clochard di Porto ai venditori di hascisc di Lisbona; dai locali per turisti agli scorci mozzafiato: viaggio d'autore in un Paese pieno di sogni e contraddizioni
Sto in giro da poche ore per Lisbona e sono già stremato dalla stanchezza e, osservando l’arioso panorama della città, solcata dal largo fiume Tejo e dal mare, vagheggio una macchina in affitto. Un’ora dopo sono in una piazza per tre quarti occupata da un giardino rigoglioso di eucalipti, che è il punto più alto del Barrio Alto. Da qui, discendendo per ripide viuzze, incontri grappoli di ristorantini. Ceno in una trattoria molto economica e poi vado ad ascoltare il fado in una bettola arruffianata con luce rossastra che emana da sorgenti nascoste dall’arredo. Solo due tavolini occupati, il mio e quello di tre turiste spagnole sui trent’anni, carine ed eccitate. Il Porto viene servito in piccole coppe panciute di 5 ml. Le tre giovani turiste ridono e schiamazzano trincando birra. Accenno un brindisi alla loro salute ma mi ignorano. Il cantante e la cantante, vestiti da sera, entrambi vicini ai sessanta, chiacchierano accanto al palchetto approntato in faccia all’ingresso.
Lui indossa un gessato grigio, è quel che resta di un bell’uomo dai tipici tratti mediterranei. Anche la donna non doveva essere male un tempo. La chioma lunga e nera è acchiappata sulla nuca da un fermaglio a forma di farfalla. Le luci si spengono mentre il cameriere mi serve il secondo bicchierino, spiegandomi in un inglese approssimativo che il fado è generalmente accompagnato da una chitarra portoghese a 12 corde, e da una chitarra classica, proprio i due strumenti che vibrano adesso e sulla cui scia si fonde la voce roca della donna. Il nome fado deriva dal latino Fatum. I temi prevalenti sono l’amore deluso, la gelosia, la fatica di vivere, l’esilio. Il fado, che viene considerato la voce della saudade, sentimento tutto portoghese e brasiliano, si suona prevalentemente a Lisbona e a Coimbra. Il cantante, che ora è seduto a un tavolino qualunque a bere, e la cantante sul palco, duettano a distanza con scolastica bravura. Finita lo spettacolo, i due passano fra i tavoli coi i loro cd per la vendita. Ne acquisto uno, quello con la copertina più colorata, per non deluderli.
Con la macchina a nolo, visitare la città diventa più comodo, anche se i portoghesi in auto non ammettono infrazioni né esitazioni. Mi ritrovo a passare una quantità di volte alla Praça do Comércio che è maestosa e bianca, con l’Imbarcadero, il Monumento Equestre a Giuseppe I e l’Arco di Trionfo, con il caffè Martinho de Arcanha dove andava Pessoa, eccolo, sì, è quello ma qualcuno mi suona accidenti… trovo parcheggio non lontano. La piazza è spazzata da un vento fresco odoroso di salsedine. Mi accostano varie volte i venditori ambulanti di occhiali che poi cavano dalla tasca del giubbotto dei panetti di hascisc. «Fumo buono, fumo buono!», mi fa un giovane mulatto, facendomi annusare il prodotto. L’indomani di buon’ora parto per Cascais, un porticciolo esclusivo dipinto di bianco, pieno di vetrine scintillanti e di banche. Di antico c’è solo la cittadella cinquecentesca che domina l’insenatura, ma resto imbottigliato nel traffico e rinuncio a visitarla. Una via di mezzo fra Portofino e Forte dei Marmi, Cascais ti solletica per un attimo, il tempo di un bagnetto veloce nell’Oceano, ma già ti ha saziato, con le sue griffe internazionali e la sua bella gente. Dopo Cascais c’è campagna monotona e vertiginose scogliere affacciate sull’oceano. Arrivi in serata alla turrita Obidos. Nel XII secolo fu donata da re Dinis alla moglie Isabel, divenendo da allora tradizionale dono dei monarchi portoghesi alle proprie mogli. Lasci la macchina al parcheggio e raggiungi l’albergo con una macchinetta elettrica scoperta messa a disposizione dal tourist office. Fa quasi freddo, l’aria frizzante dell’oceano trasporta una densa nebbiolina. Obidos è una meta turistica obbligata, tanto più in questi giorni durante i quali vi si svolge una sorta di festa medievale. Gli artigiani e i commercianti indossano abiti d’epoca, dentro il castello si cucinano porcelli sulla brace, le botteghe vendono porto o la locale Ginja – un delizioso liquore visciolato. Si mangiano carni alla brace su tavoli di fortuna, si vedono in giro bambini e adulti abbigliati da crociati, si cammina lungo i camminamenti delle mura. Respiri l’atmosfera medievale e ti senti un turista citrullo. Però, dopo tre o quattro bicchierini di ginja, non ti poni più tanto il problema e ti lasci trascinare dalla folla che tutto fagocita e consuma. Incroci più volte 4 o 5 musicisti che suonano strumenti medievali, facendo un baccano tremendo.
Dopo l’irrealistica Obidos, prosegui verso nord e ti cali nella fuligginosa, grigia di granito, verticale e severa Porto. La guida consiglia di non girare di notte nelle zone lungo il fiume, nei parchi e nelle piazze più centrali, nella stazione ferroviaria di São Bentoe nel quartiere Ribeira. Ma me ne frego e mi calo nella Ribeira, che s’affaccia sul fiume Douro come, sulle sponde opposte, la cittadina di Villa Nova de Gaia, dove spiccano le insegne delle aziende produttrici del Porto. Ribeira è dominata dal grandioso ponte di ferro de Don Luis I, progettato da un assistente di Gustave Eiffel e aperto nel 1886. Attorno al ristorante s’aggirano famelici dei barboni. Ognuno ha il proprio locale di riferimento e periodicamente nel corso della serata tornano a suggere spiccioli dai clienti. Al mio barbone allungo subito cinquanta centesimi per levarmelo dai piedi, ma quello resta a gravitarmi intorno. Ha una faccia spiritata e macilenta da mistico. Confabula con un cliente sullo sfondo del molo affollato e di piccole, colorate imbarcazioni. Alla fine strappa da un tavolino non occupato un lembo di tovaglia di carta e si avvicina a capo chino al tavolo di un inglese, raccogliendo sul pezzo di carta gli avanzi della sua cena. Un vecchio detto portoghese recita: «Coimbra canta, Braga prega, Lisbona si pavoneggia e Porto lavora». Vero è che Porto è il maggiore centro commerciale e manifatturiero del paese, ma l’immagine di città operosa che vuole darsi non si sposa con certe figure di suoi clochard.
A Porto convivono splendori barocchi e “manuelini” con case fatiscenti, muri franati. Per le erte stradine del centro che salgono verso la cattedrale, afrore di piscio, siringhe, rifiuti e manifesti elettorali stracciati. È proprio davanti alla severa cattedrale di granito che monto su una caratteristica vettura a forma di trenino, coi fianchi dipinti di botti, che effettua un giro panoramico scaricandoci in una delle storiche cantine di Villa de Gaia. Le origini di Real Companhia Velha risalgono al 1756. La compagnia è proprietaria della maggiore estensione di vigneti nella valle del Douro. Seguo senza sufficiente attenzione varie notizie sui metodi di conservazione del vino conservato in botti di rovere. Ma il Porto più pregiato e più vecchio è conservato in una sala buia, sbarrata da un cancello.
Prima di rientrare a Lisbona, faccio una puntata a Fatima, che sarebbe un insignificante paese dell’Estremadura, se non fosse per il fatto che è uno dei più frequentati luoghi di pellegrinaggio del mondo cattolico. Il santuario sorge su una spianata lunga un chilometro, dominata da una basilica bianca, dove un tempo pascolavano le pecore, finché il 13 maggio del 1917 tre pastorelli videro la Madonna e uno di loro ne sentì anche la voce. Alcuni pellegrini attraversano la spianata in ginocchio: donne anziane, giovani e perfino dei ragazzini. “Il Signore sa che lo fanno per gioco!”, mi sta dicendo una donna italiana venuta qui con tutta la famiglia indicandomi i due suoi figlioli che per l’appunto procedono ginocchioni, ridendo, lungo una striscia più chiara del lastricato. “Ma la loro preghiera vale lo stesso”. Mi accosto alla grande fornace infuocata, dove i fedeli lanciano ceri che immediatamente si incendiano alimentando fiamme alte e vigorose. I pellegrini sono tantissimi, ma il tredici di ogni mese ce ne sono migliaia, stipati fino ad occupare ogni metro quadrato dello spiazzo immenso. Lo squallido paese è stracolmo di botteghe di artigianato locale che vendono statuine della Madonna, rosari e altri oggetti devozionali. Passeggiando ripenso a quella donna che in aereo pregava istericamente a voce alta sfregando fra i polpastrelli una immaginetta della Madonna di Fatima: «Maria, ti prego, non far cadere l’aereo, fammi venire da te!».
Tornare a Lisbona non è come andarci per la prima volta. Hai la sciocca presunzione di conoscerla, ti senti già iniziato alla sua bellezza. Anche se non puoi evitare ancora il flusso dei turisti, che ti porta alla “manuelina” Torre de Belém e al Mosteiro dos Jerónimos, circondato da un parco bellissimo dove ti sdrai sotto un castagno a leggerti le poesie di Pessoa. Poi ti addormenti e ti risvegli fissando i gabbiani che planano sull’erba: «Perché per essere felici/È necessario non saperlo?». Penso se ha senso anche per gli animali la condizione di felicità. Più tardi entri in una famosa pasticceria di Bèlem a mangiarti un dolcetto locale e a bere un bicchierino di Porto e pensi che forse adesso, in questo momento, potresti essere felice. Ecco che cos’è Lisbona, un pensiero simile poteva venirti solo qui. La città ti mette addosso una sensazione di libertà e di benessere. Percorri una strada che sembrano i campi elisi di Parigi, fra sole e macchie d’ombra sotto i platani, prendi il famoso tram numero 28. Ti siedi vicino al conducente, che muove con sapienza una leva di metallo sul piano dei comandi e compie altri faticosi movimenti con una sicurezza, una sincronia che incantano. È poco più di un ragazzo, ha il berretto sulla testa, l’aria soddisfatta. Il piccolo mezzo elettrico si arrampica sferragliando e flottando per stradine tortuose, dove si sfiorano i muri o le macchine parcheggiate e quasi entri nelle case. L’Alfama, il quartiere che stiamo percorrendo, fu una delle poche zone della città risparmiate dal devastante terremoto del 1755. Un groviglio di viuzze dove è facile perdersi, magari entrando dentro il cortile di casa di qualcuno. Ai tempi della dominazione araba, questo era un quartiere residenziale per ceti benestanti. Per anni è stato abitato da pescatori e operai e le case medievali sono spesso precarie, malmesse. Alla mattina presto le donne vendono il pesce davanti alle case. Ora c’è qualche vecchio e molti neri. La emozionante corsa in salita arriva al Castelo Sao Jorge, e poi prosegue verso ovest, fino al Barrio Alto. Vorresti che non finisse mai. Ma invece finisce e finisce anche il tuo soggiorno in Portogallo dove chissà se tornerai un giorno.