Uno spettacolo dall'«Histoire de ma vie»
Casanova Herlitzka
Ruggero Cappuccio ha costruito una visione sul grande veneziano raccontando una vita vissuta in cerca di un antidoto contro la morte. Con un grande Roberto Herlitzka
Buio. Un ambiente claustrofobico senza porte o finestre. Più simile a una tomba che a una stanza. Solo, avvolto in uno spolverino che ricorda anni migliori, un uomo anziano, sfiancato dalla malattia ma dal portamento ancora altero di chi ha avuto il mondo ai suoi piedi, o meglio, di chi si è fatto beffa del mondo conducendo la vita a modo suo, ripete fino all’ossessione un imperioso, nevrotico «Aprite». L’occhio si abitua all’oscurità, nella penombra si intravedono cinque figure, automi dai meccanismi impazziti che le rendono simili a bambole dagli arti scoordinati o fantasmi rivestiti di carne ad assumere forme femminili macabre e lascive? Non crede ad un’allucinazione il vecchio gentiluomo, lui che ha sempre cavalcato la ragione, lui, il filosofo senza Dio, che è stata l’espressione più pura del secolo dei lumi. Ipotizza, piuttosto, un altro scherzo di cattivo gusto del suo acerrimo nemico, Feltkirchen, maggiordomo del conte di Waldestein che da tredici anni lo ospita nel castello di Dux come bibliotecario. «Aprite!», urla ancora, «non mi fate paura».
Schernisce le donne mascherate con corpetti, parrucche e trucco pesante da prostituta, pappagalli azzimati su sedie trespolo, i movimenti sconnessi da marionette animate da un burattinaio folle. I veli che a stento coprono la nudità battezzano quel coro osceno: la Nera, la Rossa, l’Azzurra, la Gialla. Su tutte sovrasta la Straniera, sarà lei la prima ad intrecciare un forbito, tagliente duello verbale col «vigliacco veneziano» che rifiuta di dire il suo nome, a metterlo sotto accusa, a lanciargli addosso come strali acuminati domande da tribuno dell’inquisizione. Ad incalzarlo fino allo sfinimento. Come Erinni le fanno eco le altre con falsi cinguetti sensuali e risate volgari nel vortice di un sabba infernale, di una danza sguaiata da circo horror.
Così inizia il Casanova di Ruggero Cappuccio, il suo recente, bellissimo, melanconico, evocativo, riflessivo testo teatrale che ha affidato alla regia visionaria di Nadia Baldi (suo anche il progetto di luci che scandisce l’azione e impone ritmo) e alla voce-corpo di Roberto Herlitzka. Bravo, bravissimo, padrone della scena, elegante, un cavaliere della parola al pari del personaggio che incarna che della parola ne ha fatto un’arma. Oggi, però, in quella che si presenta come l’ultima notte, è smarrito, fragile come un piccolo specchio di Murano: «Da bambino è caduto, è andato in frantumi. E per tutta la vita ho cercato di rimettere insieme i pezzi. Per ritrovare l’innocenza, per sapere chi fossi davvero». Casanova è allo specchio, senza più identità, costretto a giocare la partita finale per ritrovare se stesso in un corpo a corpo con il passato ed un futuro dal sapore della morte.
Cappuccio si è ispirato alla Histoire de ma vie, scritta da un Giacomo allo stremo, povero, esiliato dalle corti e ripudiato dal popolo, proprio nel corso del soggiorno in Boemia. «Da tempo – rivela – indagavo la sua esistenza, mi interrogavo sul perché un intellettuale colto, curioso e dai profondi valori, un viaggiatore instancabile, un anticipatore dei tempi, un autore che scrive con rarissima e affilata modernità, che ama le donne e ne incontra carnalmente un numero di gran lunga inferiore rispetto alla superficiale moltiplicazione attribuitagli, fosse stato consegnato alla storia come avventuriero eretico e libertino. Mi hanno aiutato le sue memorie a comprenderlo in profondità, così come mi hanno stimolato gli studi di questi ultimi anni, soprattutto psicologici, che stanno mettendo in moto la dovuta, giusta operazione di riabilitazione». La
drammaturgia è tracciata alla pari di una seduta analitica.
Nell’incubo del tribunale immaginario, ad ogni domanda corrisponde un ricordo, triste, gioioso, ironico. È un vero e proprio viaggio nell’esistenza vissuto in terza persona: il Cavaliere di Seingalt – autoproclamazione per «il diritto che ciascun uomo ha sulle lettere dell’alfabeto» – negherà fino all’estremo di essere Casanova, «perché l’idea che il mondo ha di Casanova non è lui». Sotto processo è allora la banalità degli stereotipi ed il pregiudizio. «Dicono che io sappia tutto dell’amore. Si ingannano. È l’amore che sa tutto di me. Io sono solo il capro espiatorio della passione che agita l’umanità», replica, ritrovando l’orgoglio di chi, tacciato di essere un seduttore vanesio, al contrario ha avuto la grande capacità di ascolto per le sue amanti, l’assenza di ogni gelosia che ne avesse potuto comprimere la vita, la straordinaria dote di scegliere creature che padroneggiassero la propria espressività erotica e, infine, ha concretizzato un piacere esente da conflitti e limitazioni mentali borghesi. «Casanova non costrinse, non fu geloso. Per essere felice un momento ha pagato con la derisione, la galera, l’esilio, la gonorrea, la sifilide, l’insonnia, la tristezza. Vi ha divertito per un secolo e voi volete ucciderlo di follia in una notte», inveisce contro le sue accusatrici.
È il momento della riconciliazione, del riscatto. «Ecco ci siamo. È buio. Sorridete signora. Datemi la mano – si rivolge alla Straniera –. Se direte il vostro nome io confesserò il mio». Lo specchio infranto si ricompone, le due anime divise, il fuori e dentro di me, l’essere e l’apparire non sono più in guerra: «Sono Casanova. Sono stato da sempre un grande scrittore… Il personaggio si è mangiato lo scrittore».