Vincenzo Nuzzo
La «locomotiva» della cultura

Berlino in grigio

Viaggio nella città che meglio di ogni altra rappresenta la propensione globale al presente assoluto: una specie di luna park dove la memoria è un gioco per turisti. Purché ci si facciano buoni affari

Non posso naturalmente paragonarmi a un Wim Wenders, ma dopo una visita a Berlino credo che il rapporto della città con Lisbona possa essere raccontato anche alla rovescia, e cioè come una Berlim Story.  Del resto lo stra-tradotto libro Treno notturno per Lisbona (Nachtzug nach Lissabon o Trem nocturno para Lisboa) è stato scritto, sotto pseudonimo, proprio da un professore di filosofia berlinese. Questa è insomma la storia di chi oggi guarda Berlino da Lisbona. Ma, nelle attuali circostanze politiche: da un Europa del Sud che è in radicale conflitto con quella del Nord. Entra in tutto ciò anche un personale conto in sospeso che ho con Berlino. E che non intendo però far valere in senso negativo e rivendicativo. Per cui mi rifarò alla fine a una terza citazione, e cioè alla Marlene Dietrich di «Ich habe einen Koffer in Berlin». Letteralmente: «Ho una valigia a Berlino», ma figurativamente vuol dire proprio essere destinati a mantenere un rapporto intimo con questa città. Anche se da lontano.

Il succo del discorso è però che Berlino non è più assolutamente la stessa di prima. Eppure in qualche modo lo è. Difficile dire in che senso. Nemmeno la vecchia Berlino era infatti, almeno dal mio punto di vista, un luogo bello per vivervi. Sta di fatto che però oggi la si considera tale in tutto il mondo. Tuttavia in relazione a criteri che non hanno assolutamente nulla a che fare con ciò che la città era fino agli anni in cui io vi ho vissuto (‘90-‘93).

muro berlinoQuando vi sono arrivato il Muro era appena caduto ma di fatto ancora c’era. E c’era ancora perfino un passaporto per poter passare di un lato all’altro per mezzo dei varchi di un confine ancora esistente. Berlino Est era intanto ancora quella che era sempre stata dalla fine della guerra in poi, e cioè un luogo che i berlinesi dell’ovest descrivevano per mezzo di un aggettivo che riassumeva tutto in due sillabe: «grau» (grigio). Tutto infatti era sconsolantemente grigio. E non solo per la fuliggine dei riscaldamenti a carbone, bensì anche per lo squallore desolante e opprimente degli edifici ‒ rimessi in sesto alla meglio oppure  ancora visibilmente danneggiati dalle bombe ‒ e degli acciottolati perennemente umidi solcati dal disordinato groviglio dei binari della Strassenbahn. Era proprio quella la Berlino storica ormai tramontata. Quella possente e monumentale degli imperatori prussiani, quella elegante, spigliata ed arditamente trasgressiva degli anni venti, quella sanguinosa e demoniaca degli anni trenta e quaranta, ed infine quella tragica ed infine desolante ed allucinata degli ultimi anni di guerra. Fino allo spaventoso spettacolo terminale di un immenso ammasso di macerie e mozziconi di muri straziantemente ritti verso il cielo in un agghiacciante silenzio lunare.

Del resto non mancavano atmosfere simili nemmeno dall’altro lato, specie nei quartieri abitati da turchi e proletari, com’erano allora Neukölln e Kreuzberg, o nei quartieri operai di Wedding, Moabit e Wilmersdorf. Tetre e tortuose architetture d’acciaio e legno, residuo della città operaia e delle distruzioni belliche,  torreggiavano in alcuni punti desertificando lunghi tratti di strada privi di edifici. Qua e la, poi, campicelli grigio-cenere costellati di rachitici abeti e betulle, e aree industriali dal terreno color lava, ingombre di ferraglia e di spoglie casupole di mattoni rossi. E intorno a tutti questi luoghi ‒ negli stessi spazi delle stazioni che in essi sorgevano e perfino dentro i vagoni ferroviari, quando li attraversavano ‒ le presenze umane si facevano spettrali. Ubriachi e Pennern (barboni) con i loro insopportabili fetori, folli dagli occhi vitrei, vari infelici dagli sguardi persi nel vuoto. E intorno e sopra a tutto il gelido grigiore plumbeo solcato dai voli di corvi sinistramente gracchianti. Io direi che il volto dell’intera Germania è in fondo questo smorto scenario bianco-grigio, i cui afrori dominanti sono quelli ripugnanti di alcool, di burro fritto e di senape. Ed esso continuamente trapela emergendo tra le maglie di luoghi e scenari. È il volto di una Germania arcigna, acida e inospitale, davanti al quale gli stessi tedeschi più sensibili arretrano inorriditi, quando questo  viene reso loro evidente. Loro non lo vedono perché vi sono vaccinati contro dalla nascita nel luogo. È così del resto per le bruttezze di qualunque luogo di questo mondo.

Dunque, Berlino era allora impregnata da tutto questo (e al fondo di tutto lo è ancora). In più la guerra con le sue distruzioni. In più i veleni degli opposti schieramenti della Kalte Krieg, che proprio lì si guardavano in cagnesco prolungando così all’infinito gli ultimi giorni di agonia di un intero paese. In più i guasti del regime stalinista da un lato, e dall’altro lato quelli di un regime capitalista “per sfregio”. E in più vi era tutto quello che c’era da dimenticare. Ebbene, almeno io personalmente, appena messo piede a Berlino, mi sono sentito raggelato da tutto questo. Dappertutto sentivo la fredda lama del passato penetrare nella mia anima con tutta la sua cinerea scia di morte, crudeltà, infamia e distruzione. E questo, almeno dal mio punto di vista, era già sufficiente per desiderare di non vivere in questa città.

AlexanderplatzOra però, paradossalmente, perfino di tutto questo si finisce (da “vecchi”) per provare nostalgia.

Per capire perché, bisogna chiedersi cosa sia oggi veramente Berlino. Almeno nelle sue parti oggi più rinomate e rappresentative. Esempio classico la Potsdamer Platz dove ho risieduto per quattro giorni.

La piazza era ai miei tempi un immenso e desolato spazio vuoto dal sabbioso fondo grigio-cenere con venature gialle. Proprio su di esso si levava immenso e maestoso l’effettivamente altissimo e metafisico cielo di Berlino. Ed esattamente al suo centro la domenica si teneva un variopinto ma poverissimo mercato delle pulci. Oggi è però proprio da lì che si dirama un tessuto intricatissimo di architetture megalomani il cui senso può essere riassunto solo nella glaciale ma luccicante indifferenza di uno strapotente e travolgente turbo-capitalismo. Nel Sony-Center ci si chiede se ci si trovi in una stazione spaziale orbitante intorno alla terra, in una morbosa atmosfera fantascientifica alla Blade Runner, oppure solo in un’inquietante gabbia di matti. Ed esattamente lo stesso accade nei dintorni, immersi come si è in un esibizionismo ridondante le cui immagini cercano perfino di far passare una Berlino calda, nuda e tropicale.

Ma intanto dappertutto sono cristallizzate tracce di un passato più o meno imbarazzante: fotografie d’epoca, esposizioni, musei, installazioni. La maggior parte delle quali dedicate ormai esplicitamente al terrore nazista. Tutto però ormai solo neutrale oggetto di esposizione e di divertimento per turisti svagati.

Infine, intorno a tutto ciò, orbita un intero sistema solare di “nuovi berlinesi”. Gente che accorre qui in gregge da tutto il mondo. Moltissimi gli italiani, che pomposamente un libro descrive come “i nuovi italiani” a Berlino (e in Germania). Manodopera non più bruta ma intellettuale. Per intenderci, quelli che …ci sono venuto per una tesi di dottorato e non sono più andato via. Ma soprattutto, debordante da questa vasta umanità straniera, uno sciame immenso di turisti, specie ragazzini, venuti a sentire nelle vene i brividi della città del perenne ed eccitante titillamento sensoriale iper-tecnologico. Molti di loro resteranno lì facendo lavori non esattamente intellettuali, ma almeno molto “smart” (come, ad esempio, camerieri iperattivi e perennemente allegri di un’immensa congerie di caffè e ristorantini multi-etnici). Che accade allora? Accade che anche a un evidente straniero come me, ma che comunque parla ancora bene il tedesco, tutti ormai si rivolgono in inglese. È accoglienza, questa, o è calcolo?

È dunque ovvio che la solita arcigna ed acida Germania berlinese, quella bella e quella brutta, quella ben intenzionata e quella male intenzionata, non vede per nulla di  buon occhio tutto questo. La città, infatti, ormai gravata di interi quartieri ex-DDR ‒ prima luoghi squallidi e suicidari, ed ora  luoghi “trendy” e “smart”, eccitanti e variamente trasgressivi, con relativa inflazione esplosiva dei prezzi ‒ occupati da questa varia umanità aliena, sconcerta i veri berlinesi proprio per il così superficiale entusiasmo del gregge. L’accusa rivolta ad esso non è infatti quella solita dell’Ausländerhaß ma è invece la seguente : ‒ “Che cosa mai ne sapete voi di Berlino?”. Ed essa è del tutto giustificata.

berlino estEbbene, è proprio da tale punto di vista che si può comprendere il tutto. Che non si tratti qui affatto di un autentico melting pot internazionalista, come quello delle odierne megalopoli (già atroce di per sé in termini di identità collettiva), è cosa già evidente di per sé. Si tratta invece  di un fenomeno del tutto artificioso, altrettanto effimero, e perfino ai limiti del mero virtuale-non-reale, quanto lo sono i fantasmagorici edifici del nuovo centro. Ma soprattutto si tratta di una gigantesca e atroce operazione di seppellimento del passato. In tutti i sensi. E questa volta non solo ad opera dei tedeschi ma del mondo intero. Si tratta così dell’accreditamento di una nuova forma iper- e turbo-capitalista di vita, in cui la promessa della felicità assoluta (ovviamente eccitantemente trasgressiva) è tanto gigantesca quanto irreale. E la nuova Berlino sembra proprio costituirne uno dei più rilevanti centri nevralgici mondiali.

Chi ci guadagna? Come sempre solo i pescecani, cioè i politici germanici e i turbo-investitori locali e internazionali. Insomma, a chi non ama, anzi aborre a morte tutto questo, io consiglio di moderare tutto questo entusiasmo così a buon mercato. Alla fine c’è anche da chiedersi quanto tutto questo sia reale e quanto veramente durerà. Dopo di che non resterà, infatti, che la Berlino di sempre entro la Germania di sempre. Ebbene, a chi riesce per davvero ad amarle, tanto di cappello! Ma a chi in realtà non le conosce affatto, e quindi non può veramente amarle, posso solo dire: ‒ cuidado (attenzione)!

Questa, insomma, è la Berlino che io riesco a vedere dall’osservatorio di Lisbona.

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