Viaggiatori interessati/3
Tunisia senza palme
L'ultima tappa del nostro viaggio nel Maghreb è segnata dalla prevalenza dell'industria turistica sull'autenticità africana. In un misto di delusione e smarrimento
È l’ultimo dell’anno, ma bisogna concentrarsi per ricordarlo. Partiamo presto, in una giornata di freddo intenso e di vento tagliente (ci arriva la notizia che a Tunisi addirittura nevica), diretti a Matmata e ai suoi villaggi trogloditi, in un lungo tragitto che dalle porte del Sahara ci conduce verso est, verso il mare e la località forse più famosa della Tunisia, Jerba. Durante i quasi cento chilometri che ci portano a Matmata, la strada – che ora è soltanto una route principal, e costringe il pullman a un’andatura più prudente, tra curve, discese e salite – attraversa una zona di deserto roccioso nella quale più di mille anni fa le tribù berbere si sono insediate scavando le loro abitazioni nella roccia, al di sotto del piano di calpestio. In una di queste abitazioni, che si mantengono fresche d’estate e calde d’inverno, i padroni di casa ci offrono pezzi di pane ancora caldo, fatto da loro che nonostante la lauta colazione consumata meno di un’ora prima, viene accettato con grande piacere. Anche in questo caso si tratta di una pura finzione a uso e consumo dei turisti, però è una finzione suggestiva, che permette di farsi un’idea su come vivevano i berberi, che tipo di suppellettili utilizzavano, quanto erano accoglienti questi ambienti mimetizzati nella roccia. Fuori di essi tira un vento gelido, impetuoso, che mi sembra perfetto per questo panorama scabro e severo di rocce, colline, avvallamenti e scarsissima vegetazione nel quale, a suo tempo, sono stati allestiti i set della saga di Guerre Stellari e del primo Indiana Jones.
La tappa successiva è la costiera città di Gabes, un po’ più a nord. Qui, dice la mia vecchissima guida verde del Touring, c’è uno dei più estesi palmeti del Maghreb, e giunge fino alla spiaggia. Qui, nella romana Tacapes, la natura era lussureggiante e generosa, come precisa Plinio nella sua Storia Naturale: «Là, sotto una alta palma, cresce un olivo, sotto l’olivo un fico, sotto il fico un melograno, sotto il melograno il vigneto, e sotto la vigna si semina il grano, poi i legumi e gli ortaggi, tutto nello stesso anno, e tutti crescono all’ombra l’uno dell’altro».Ma Ashref, la nostra guida tunisina che parla un buon italiano, smonta questo paradiso: a Gabes gli insediamenti industriali (raffinerie dove si trasforma il petrolio libico, cementifici e industria chimica) hanno semidistrutto il palmeto, la città soffre un terribile inquinamento, la descrizione di Plinio è solo archeologia.
Gabes è una città ingorgata di traffico, negozi, attività. Negozi di abiti da sposa e di vestiti da cerimonia accanto a enormi bancarelle di datteri o di clementine, un grande supermercato Monoprix accanto a una bottega di barbiere che tiene sul marciapiede uno stendino dove si asciugano le tovagliette, il negozio di abbigliamento per bambini Fabio che regala il terzo dei tre articoli comprati accanto a un minuscolo emporio che vende acqua minerale, pannolini, scope, pane. Una città quasi frenetica che però si incuriosisce del nostro pullman, alza gli occhi, sorride, saluta, alimentando il mio dubbio: chissà che cosa pensano di noi italiani.
Dopo la sosta pranzo facciamo un breve giro al suk delle spezie, dove sono esposti in un’allegra mescolanza datteri, henné e ogni tipo di spezie e legumi, borse e cestini di paglia, braccialetti e orecchini, vecchie musicassette di artisti locali, alici salate, piatti in ceramica con la mappa della Tunisia, rose del deserto a quintali.
Durante il resto del viaggio, che riprende la route national ma è costretto a un giro lunghissimo, che passa per le città di Medenine e Zazis perché le cattive condizioni del tempo hanno fatto sospendere il servizio di traghetti per Jerba, mi passa sotto gli occhi una delle zone più brutte e squallide viste finora. Non è deserto e non è città, non sono olivi e neppure pecore: sono chilometri di arida pianura sulla cui vegetazione cespugliosa sono incastrati residui di buste di plastica, azzurre, nere, bianche. Milioni di buste di plastica, che donano squallore ad ogni cosa, anche ai radi insediamenti umani, ai campi coltivati e a certe rivendite di datteri e ceramica che a tratti sorgono, per metri e metri, sul ciglio della strada.
Perciò è ancora più stridente l’arrivo all’hotel di Jerba, un altro enorme El Mouradi, con la hall addobbata a festa, la musica a tutto volume e volenterosi animatori che ci offrono il cocktail di benvenuto, ciao Italia. Il diner Saint Sylvestre (per la prima volta un pasto non a buffet ma con servizio ai tavoli) risulterà essere lento come certi pranzi di matrimonio, con le portate dai nomi altisonanti e l’allestimento elegante, con l’orchestrina che suona ballabili, con la danzatrice del ventre, i suonatori di tamburi e anche i ballerini moderni. Con gli ospiti, soprattutto europei, in gran tiro e coi camerieri che percorrono chilometri, nella grande sala, dalla cucina fino ai tavoli, all’inizio con passo scattante e poi sempre più rallentato.
È un capodanno senza botti e senza lenticchie, senza Raiuno che scandisce i secondi per stappare lo spumante, senza gli auguri sulle linee intasate con parenti e amici. È soprattutto un capodanno senza bilanci e senza propositi, non ce n’è il tempo, domani la sveglia suona già alle sette.
La luce su Jerba del primo gennaio è limpida della pioggia abbondante che è caduta per tutta la notte. Ancora tramortiti di sonno e stanchezza, facciamo un giro esplorativo dell’isola, ammiriamo i fenicotteri rosa, visitiamo l’antichissima sinagoga Ghriba e pure il museo delle arti berbere, ripercorriamo -questa volta con la luce- il ponte romano che collega l’isola alla terraferma, il servizio di traghetti è ancora sospeso per il vento fortissimo.
La parte piacevole della giornata finisce qui, insieme al sole, che presto lascia il posto a un tempo cupo e freddo e poi a una pioggia battente. Il viaggio di risalita verso nord è lungo oltre cinquecento chilometri e otto ore di pullman, e la strada fino a Sfax è solo una route national, piuttosto malconcia, che sopporta un traffico pesante molto intenso e rallentato dai dossi che precedono ogni incrocio. I tempi si rallentano, il pranzo salta, riusciamo per il rotto della cuffia a fare una breve visita a El Jem, il Colosseo africano, 35mila posti a sedere, inferiore per grandezza soltanto agli anfiteatri di Roma e di Capua, uno spettacolo nel tramonto.
Si dorme ad Hammamet, in un albergo dal tono molto europeo, dove per la prima volta non dobbiamo fare chilometri per raggiungere le stanze. Ma dove funziona un ascensore su tre e dove a cena assistiamo alla scena del personale di sala che alle 21.30 chiude il servizio ristorante, lasciando tutto com’è, per sedersi ai tavoli liberi a mangiare, senza attendere che la sala si svuoti degli ospiti. C’è qualcosa di surreale in questa scena, come surreale è stata un po’ tutta la giornata: le lunghe ore di viaggio a tappe forzate per risalire a nord, il freddo eccezionale che stava aspettando proprio noi, le tante facce del paese che mi sono passate sotto gli occhi, da dietro i finestrini del pullman, in una sorta di riepilogo di emozioni, di immagini, di curiosità che ho cercato di appuntare con la scrittura se non ci riuscivo con le immagini.
Il giorno dopo, che è proprio l’ultimo di viaggio, la Tunisia ci regala una giornata splendida di sole e anche l’emozione di comprare a prezzo fisso – e stampigliato sulle etichette attaccate a ogni singolo articolo – in una fabbrica di ceramica di Nabeul, ultima sosta sul suolo tunisino prima del trasferimento all’aeroporto di Tunisi. L’aeroporto, che ci era sembrato efficiente oltre che bello all’arrivo, si rivela assurdamente disorganizzato, affollato e sporco nella zona delle partenze. Un primo controllo sicurezza, per tutti i bagagli e le borse, si fa già all’ingresso in aeroporto, determinando una fila che si allunga all’esterno, per tutto il marciapiede. Poi c’è un lento check-in col tapis roulant dei bagagli che si blocca in continuazione e infine una fila allucinante per il controllo passaporti, in un ambiente non climatizzato. La fila riservata a disabili e donne incinte non è rispettata, a un signore in carrozzina non viene data nessuna precedenza e a un certo punto ci troviamo tra due fuochi, la puzza di pannolino non cambiato di bel bimbetto da una parte e gli spintoni che si danno due corpulenti tunisini pronti a venire alle mani, dall’altra. Questo imprevedibile, sgradevole saluto alla Tunisia ha pure un costo: 30 dinari. Tale è l’importo della exit tax, un francobollino da attaccare sul passaporto, che si applica a ogni persona che lascia il paese. Ma fa niente, tutto concorre a fare esperienza, in viaggio. Quello che vedi, quello che intuisci e quello che resta una domanda.
Dall’oblò dell’aereo in fase di decollo, Tunisi è una distesa abbacinata di case basse, bianche, che mi ricorda – in grande – Lampedusa. Da così lontano tutto sembra netto, ordinato, ma le immagini che ho avidamente memorizzato in questo tour e che ritrovo nella memory card della macchina fotografica mi riportano a una realtà molto varia.
Le distese a perdita d’occhio di spazio e di polvere, con montarozzi di pietre, materiali di risulta e sparute costruzioni. I suoli irrigati dei palmeti fitti o degli olivi piantati a distanza di almeno dieci metri. Agavi e fichi d’india per chilometri lungo le strade, gelsomini e buganvillee come macchie colorate sulle case. Gli empori senza insegna, le minuscole officine disordinate, le macellerie con pecore intere appese a un gancio. Le verande dei bar frequentati solo da uomini, quelli col caffettano e quelli col giubbino di pelle, rallegrate da sedie di plastica di colore verde e arancione. Il commercio ambulante di datteri, di clementine, di arance, di melograni e le enormi bancarelle coperte, sempre a bordo strada, di ceramica: piatti, ciotole, insalatiere, tajine. Le bottigline di acqua minerale con nomi femminili, Safia, Sabrine, e gli scooter dove si va almeno in tre, e senza obbligo di casco. Le taniche di benzina di contrabbando, l’azzurro di tutti gli infissi, i cani e i gatti randagi, gli asini e le galline nei recinti attorno alle case isolate. A volte desolazione a volte nobiltà, a volte arretratezza a volte lusso, e sempre, ovunque, lo sventolio orgoglioso della bandiera, rossa con la mezzaluna e la stella.
Sono istantanee, sono ricordi, sono il rammarico di non aver capito di più, di avere raccattato poche informazioni sulla primavera araba e il nuovo presidente, sulla condizione della donna nella società e il sistema scolastico, sull’influenza che esercitano gli imam e il costo della vita. Sono istantanee di un paese che ha tanta strada da fare, Inshallah!
3. Fine
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