La nuova raccolta di Fabrizio Dall’Aglio
Poesia in technicolor
Una poetica quella dell'autore reggiano che mette in evidenza l'elemento coloristico riferendosi a dinamiche pittoriche figurative ma anche astratte. E che nelle sue diverse modulazioni si interroga sulla radice della nostra identità
Poeta appartato e schivo, Fabrizio Dall’Aglio licenzia una nuova, elegante silloge intitolata Colori e altri colori (Passigli Editori, 96 pagine, 12,50 euro) che si configura come l’ideale approdo di un percorso iniziato nel 1984 con Quaderno per Caterina e proseguito con varie raccolte, tra cui quelle edite da Passigli: Hic et Nunc (1999) e L’altra luna (2006). Il titolo di questo nuovo libro, che rinvia a quello celebre di Giotti, mette in evidenza come l’elemento coloristico sia quanto mai presente nella poetica di Fabrizio Dall’Aglio, innervata sui frequenti riferimenti a dinamiche pittoriche di ascendenza figurativa e finanche astratta. Ma, più spesso, l’autore reggiano si accontenta di rilevare accostamenti cromatici che hanno la stessa freschezza di un semplice acquerello come in «Colori», la sezione inaugurale della raccolta: «Il campo, sotto, è solo verde/ marcio che intonaca la terra»; «Per un’estate gialla/ la luce si è inventata la pianura»; «L’autunno, fuori, è un cielo biondo/ di pioggia/ che officia un mondo calvo».
Questa prima sezione ospita poesie brevi, fulminanti, di ascendenza epigrammatica, in cui gli interni o il paesaggio sono dominati, quasi sopraffatti dai colori tenui – «il velo gonfio della trasparenza/ che illumina le cose» – che sfumano in quel «contorno di parola» che accoglie sbavature di bianco, di azzurro, di grigio, di violetto. Una gradazione cromatica che sembra formare un arcobaleno di parole. In questo caso appare quanto mai calzante il riferimento che fa Paolo Lagazzi, nella sua accurata postfazione, alla levità di Attilio Bertolucci, a quella sua pacata, trasognata inflessione di voce che sembra aderire con estrema empatia alla conformazione di una nuvola o alla delicatezza di una rosa.
La seconda sezione si intitola «Macigno» che, come annota l’autore in calce ai testi, è «un piccolo borgo – […] poco lontano da Canossa – in cui cerchiamo da qualche anno di abitare il più a lungo possibile». E, non a caso, le liriche qui presenti costituiscono una sorta di spaccato dell’esistenza che si può condurre soltanto in campagna, a stretto contatto con gli amati cani e altre creature. Ne esce un bestiario sui generis, che non conserva alcunché di araldico ma si impone per la sua vivezza e verosimiglianza: civette, gazze, rondoni, grilli, cavallette si stagliano sullo sfondo di un panorama di alberi che sembrano abbracciarsi e tornare da un orizzonte indefinito, cadenzato su un «tempo [che] si dilata» oltremisura:
E ora se si espandono le notti
sarà solo un ritegno di giornate
fiacche,
che nella luce d’alba che le smuove
s’infrangono. Scogli.
Allora dormi
e t’incatena il letto
la cenere compatta del lenzuolo
e il brusio del tuo fiato, un soffio
che comprime la tua voce.
È il tempo
nel tempo
del tempo.
Risulta quanto mai naturale, con simili premesse, approdare alla sezione «Nove haiku» che, secondo Lagazzi, «allinea sottilissime testimonianze sulla forma paradossale della realtà, sul suo essere tessuta d’istanti in fuga come sciami di nuvole e sul suo schiudersi sempre, di nuovo, come una pelle che possiamo solo ammirare senza mai penetrarne il corpo, l’essenza. Certo queste liriche, benché fedeli al modello giapponese nella struttura metrica (quinario, settenario, quinario) e nei tocchi puntuali, sciolti e luminosi, sono haiku solo in parte: mentre il “vero” haiku non è mai metaforico – tutto risolto, com’è, nella pura evidenza delle immagini -, alcuni tra questi testi schiudono metafore fiabesche […] che ricordano ancora certe tenere invenzioni di Bertolucci».
Ideale trait d’union tra la parte iniziale e quella conclusiva è la lunga prosa «Il fiume» in cui Fabrizio Dall’Aglio ripercorre la sua «infanzia reggiana» costellata dai più svariati corsi d’acqua: dagli «stagni, o buche, come le chiamavamo, in una campagna in cui qualsiasi casa di contadini ne possedeva una, più o meno grande» ai fiumi o ai piccoli fossati «spesso privi d’acqua e privi di un qualsiasi nome», con sullo sfondo il Po: «non potevamo sentirlo nostro, forse perché troppo grande; l’acqua restava lontana, potevamo solo ammirarne con un po’ di immaginario spavento i mulinelli, e lo scorrere largo e maestoso come un movimento musicale». Un po’ come nel Bateau ivre in cui, dopo tanto girovagare, si riscopre la «gelida pozzanghera» in cui un «bambino accovacciato e triste/ vara un battello fragile come farfalla a maggio», il fanciullo protagonista di questa prosa si avventura alla ricerca dei corsi d’acqua più umili, dove pescare con gli amici «barbi, vaironi, cavedani».
La raccolta prosegue con le «Dediche», poesie d’occasione in cui più stringente diviene il rapporto con la cronaca o la storia, come nella lirica conclusiva dedicata «ai poeti emergenti», laddove la «vena d’ironista patetico e affabulatore» di cui parlava Mario Luzi a proposito di Hic et Nunc sembra qui acquistare vigore e riaffermarsi. Ma è sulla falsariga di un intimismo pacato e sofferto che sfocia in una dimensione prosodica che si riallaccia apertamente alla tradizione che va ricercato il tono più autentico e sofferto di Dall’Aglio, come nella lirica dedicata al compianto Gianfranco Palmery, intitolata «Corpo in scena»:
L’ho immaginato magro come il solco
di una penna appuntita. Curioso
della morte spavalda che avanzava
sopra il suo corpo in scena, esposto
all’ultimo risvolto della vita.
Che cosa darle in pasto. Poca fibra
scampata ai denti della malattia.
Forse solo parlarle, dirle tutto
condurla via con sé nella poesia.
Gli endecasillabi qui, come in altri passaggi fondamentali della raccolta – si pensi anche alla breve sezione conclusiva, intitolata «L’attesa» – si configurano come paradigmatici, nel loro nitore formale, della speculazione con la quale Dall’Aglio si interroga intorno «a quella vita priva di pensiero» che sempre più è diventata la nostra stessa vita, ingabbiata in dinamiche compulsive che la snaturano e non ci permettono di «nascere di nuovo».
Non a caso, Lagazzi ricorda come «uno dei leitmotiv di tutta la poesia di Fabrizio Dall’Aglio è la sostanza problematica dell’io: qual è, se mai ce n’è una, la radice della nostra identità?». Ma la poesia, la vera poesia, non pretende di dare risposte; le basta semplicemente interrogarsi su quale sia il modo migliore per rapportarsi alla vita, ai suoi minimi elementi, come recita la lirica conclusiva del libro, di cui riportiamo l’incipit che sembra avere la stessa immediatezza della «Liberté» di éluardiana memoria: «Ti chiamerò albero/ e ti chiamerò pietra/ ti chiamerò erba/ e ti chiamerò nuvola/ ti chiamerò sole/ ti chiamerò fiore/ sarò la voce che ti dice il nome».