Lettera da Tunisi
Che succede in Libia
La Libia è un enorme campo d'addestramento e deposito d'armi del terrore. Da molto tempo. Minacciare una guerra contro i terroristi significa innescare un effetto domino in Nord Africa
La pericolosità dello Stato islamico non risiede nelle minacce al vento, fatte via radio, ma nella legittimazione popolare che ha conquistato nei territori che controlla. Un mix di terrore e consenso, che ahinoi sta funzionando. Il califfato lo stanno costruendo veramente e questo sta diventando un magnete potente per tutte le popolazioni sunnite vessate dalla violenza di stato, dalla corruzione e dalla convinzione di essere “schiavi” di interessi altrui. E questo nonostante la barbara violenza esercitata in dispregio di qualsiasi volonta divina o di qualsiasi Dio. In piu ci sono state delle convergenze di interessi tra nemici. Un nuovo “pericolo” che nasce è sempre visto da molti come una opportunità. Purtroppo. E molta indecisione in Occidente.
Nella prima fase della crescita dello SI (Stato islamico), oltre al caos politico creato dal passo indietro Usa nell’area MENA (Middle East, North Africa), c’erano molti interessi regionali, a cui per ragioni diverse, faceva comodo un nuovo “bogey man” mediorientale. Che si chiamasse al Zarqawy o al Baghdadi, faceva poca differenza. Con buona pace per dietrologi e complottisti, nella maggior parte dei casi, queste operazioni sfuggono di mano a gnomi e strateghi della 25ma ora. E ora stiamo raccogliendone i risultati.
Pericolo scud per l’Italia?Al momento non esiste. Lo Stato islamico in Libia e gli ultimi italiani invitati a fare fagotto. Una scelta prudente. Le dichiarazioni del ministro degli Esteri italiano Gentiloni appaiono sopra le righe solo se non diventano in fretta una strategia coerente. Il termine “guerra” poi segue la nuova tendenza mediatica all’iperbole, che anche gli esperti di comunicazione di SI conoscono bene. E a cui fa gioco per dare un’immagine di ineluttabilità e potenza all’avanzata dello SI. Ne traggono giovamento reclutamento internazionale e adesione a livello locale. Un non meglio identificato intervento militare italiano in Libia, dovrà muoversi all’interno di una strategia regionale piu ampia. Altrimenti potrebbe risolversi in un vero disastro.
Le farneticazioni di al Baghdadi sulla conquista di Roma, al di fuori dell’effetto mediatico, sono da prendere in considerazione? Cominciamo con ordine. La citta di Sirte è da dovè nel 1969 prese le mosse il golpe di Muhammar Gheddafi, sponsorizzato dall’Italia (Sismi) e con la luce verde di Washington. Avversato da inglesi e soprattutto dai francesi. Un gruppo legato allo SI è riuscito ad occupare una stazione radio, l’ufficio passaporti e alcuni altri edifici. Alcune fonti sostengono che lo abbia fatto senza sparare un colpo. I combattimenti sarebbero scaturiti in seguito. Ora in Italia si è scatenata una vera gara tra “allarmisti” che vedono la bandiera dello SI sventolare su Vaticano e Palazzo Chigi e chi invece minimizza. Per i secondi valgono l’insipienza politica, la cattiva interpretazione della realtà, gli interessi economici che un nuovo intervento militare muoverebbe. Tutte cose verosimili. Ma sono vere? Difficile rispondere. Di certo, tutte le analisi sono viziate da un buco. Anche quelle quelle fatte con gli occhiali sulla punta del naso da esperti di Islam. Manca l’aspetto “millenaristico” religioso, cioe non si è compreso ciò che alberga nei cuori di milioni di musulmani da tempo: voglia di vero riscatto. E la convinzione di essere vicini alla fine dei tempi. Lo SI risponde a questa esigenza di riscatto, pur in maniera aberrante, ma se andassimo a studiare la storia di molti movimenti terroristici, scopriremmo che la barbarie è stata moneta corrente per molti. Magari in tempi dove le Ict (Information and comunication technologies) non erano così sviluppate. E al Baghdadi ha creato anche un clima di terrore e disperazione da fine dei tempi. Un “capolavoro” in termini di comunicazione.
Ma manca anche la consapevolezza di cio che è veramente accaduto nei paesi delle ex primavere. Un vero scempio delle piu basilari regole democratiche. Si sono invece sprecate le analisi psicologiche sui motivi che spingerebbero tanti giovani ad aderire allo jihad dello SI: gli jihadisti all’interno di profili border line, di fragilità caratteriale. Motivi culturali: la voglia di riscatto per stili di vita troppo occidentali (il caso tunisino). Oppure motivazioni economiche! Il jihad come risposta alla disoccupazione. Evitiamo di commentare per rispetto verso chi, magari anche in buona fede, ha elaborato teorie cosi stravaganti e che magari “leggono” anche dei frammenti di verità.
SI in Libia c’è da tempo. Con i campi d’addestramento di Ansar al Sharia Libya, il partner locale di al Baghdadi, gli jihadisti hanno avuto il tempo di formare quadri combattenti, intelligence e personale civile. Infatti solo parte degli jihadisti in addestramento in Libia – nell’area di Bengasi ad esempio – venivano poi inviati in Siria e Iraq via Turchia.
Molti rimanevano e si contavano già dei caduti in combattimento. Quindi il tempo di infiltrare i propri uomini in tutti i centri nevralgici, di chiudere accordi sotto banco con altre milizie, di consolidare logistica e capacita operative c’è stato. E giusto una questione di calcolo dei tempi. Ciò che l’Italia e la comunità internazionale devono comprendere bene è che un intervento in Libia porterà alla quasi immediata apertura di un fronte in Tunisia e di un periodo molto turbolento in Egitto. La Libia è un enorme campo d’addestramento, deposito d’armi e quant’altro per innescare un effetto domino in Nord Africa. La Tunisia da sola non è in grado di reggere l’impatto di una campagna di terrore dello SI sul proprio territorio. Esiste gia un’area non piccola di simpatizzanti e potenziali fiancheggiatori. Il sud della Tunisia lungo il confine libico è un colabrodo da dove continuano ad entrare armi.
Secondo i dati forniti dallo stesso ministero degli Interni il nucleo piu numeroso dei cosiddetti foreign fighters dello SI è costituito da tunisini. Sarebbero 1.500 gli jihadisti, provenienti dalla Tunisia, attualmente in Siria e Iraq nelle file di Daula el islamya (SI) 700 i caduti in combattimento, circa 500 quelli rientrati in patria e 4.000 quelli bloccati in partenza. Sono cifre importanti. Tenendo conto del livello d’addestramento, della determinazione, della violenza e delle tattiche militari che i miliziani acquisiscono, non c’e’ da stare allegri. E non sarebbe assolutamente una vergogna per il governo di Tunisi chiedere aiuto, anche all’Italia. Ammesso che a Roma comprendano l’importanza di consolidare la sicurezza interna tunisina. Un paese che merita tutta la nostra attenzione. Oggi rimane l’angoscia per il clima che si sta creando in patria e per un futuro pieno di incognite per tutto il Maghreb. Una situazione che dovrebbe spingere le due sponde del Mediterraneo a superare ogni diffidenza e a comprendere quanto il futuro di queste due regioni sia una cosa sola.
Soprattutto dovrebbe convincere “qualcuno” in Europa a smetterla di fare l’apprendista stregone, visti danni e disastri seminati lungo tutta la corniche sudmediterranea. E qualcun’altro, molto piu determinato, a non illudersi di poter gestire il caos a proprio vantaggio.