Un lungo viaggio da fermo
Il mistero delle città
Napoli, Berlino, Lisbona: le metropoli lasciano sospesi i loro segreti. Non è necessario capirle, è più importante viverle. Nel cuore del Portogallo, per esempio...
Come tutte le città che hanno un certo charme (Napoli ne è cosmico esempio), anche Lisbona è una città dalle multi-facce. Direi che per risvegliare un certo interesse in chi la visita, una città deve proprio rinviare ad una certa dimensione di mistero. Di quale mistero si tratti è ovviamente difficile dirlo, altrimenti non sarebbe tale. Ma, almeno per quanto riguarda me personalmente, direi che si tratta del mistero, sempre inquietante, del “perché” dell’esistenza.
Alcune città in particolare, insomma, ci interrogano, e ci lasciano interrogare, proprio circa questo. E la forma della domanda prende corpo proprio nel volto che esse ci presentano. Volto, appunto, dalle mille riposte pieghe, dalle mille ombre, più o meno ampie, dalle mille sfumature, dai mille, ora lampeggianti ora smorti e spenti, misteri ondeggianti sotto la superficie. Nulla, più che un volto, può lasciarci penetrare nell’intimità sotto di esso nascosta, ed insieme anche repellerci, intimarci di colpo imperiosamente l’alt! Lo disse così bene la donna per la quale (intellettualmente!) sono qui a studiare, Edith Stein: «Io guardo negli occhi un essere umano ed il suo sguardo mi risponde. Egli mi lascia penetrare nel suo intimo o mi respinge…». Due misteri l’uno davanti all’altro. «Wir stehen uns genenüber», diceva Marlene Dietrich.
E dunque anche Lisbona ci presenta il suo volto. Pensoso e lungimirante, a volte ridente ma con discrezione, e sempre con una vena di vibrante malinconia (a saudade!). Non raramente torvo, con un cielo screziato di nuvole gelide, come se lassù, sfumanti verso l’alto, passassero a volo d’uccello, ma lentissime, le sospensioni di vita di remoti e mai risolti crucci, o dolori, o perplessità. E sembra allora di udire nell’aria un sordo e ottundente perentorio “No!”. A cosa? Forse a una fin troppo facile esteriore felicità?
Ebbene, direi che non c’è luogo dai mille volti, rinvianti al mistero e parlanti in un vivo sembiante, che non ci rinvii anche alla percezione netta e dissecante della prosaicità ineluttabile dell’esistenza. Ogni identità di luogo, così come ogni identità di persona, eleva contro di essa sempre la sua vibrata protesta. E per questo, nel presentarsi a voi, come alla vita stessa, essa vi inganna. Si maschera agghindandosi, si sbraccia, si dà da fare, si riempie di luci, colori e suoni; mentre però sotto cova il torvo risentimento, che è poi consapevolezza dell’inganno. Che esploderà prima o poi, quando la facciata di colpo crolla e le viscere si mostrano: ‒ nello schiattare dell’umore afoso di un giorno estivo, o nell’uggia serpeggiante di un giorno invernale o autunnale.
E così, è inutile dirlo, ogni città che meriti di essere contemplata, ha i suoi troppo autentici bassifondi emozionali. Ricordo quelli di Berlino, una città all’apparenza ineccepibile nel suo grigio e gelido nitore germanico (ma basta passare una vuota domenica per le cupe ugge dei passaggi vetrati di una S-Bahn…!). Ebbene, in tali bassifondi sempre si macera, ed a volte bolle, la certezza della delusione: il perenne «nulla di nuovo sotto il sole»! L’esistenza è disperantemente prosaica dappertutto.
Eppure con quale sontuosa dovizia di immaginazione! Con quale maestosità di rappresentazione tragica! Con quale scoppiettante scintillio di commedia! Dunque grandezza della bellezza e sempre insieme bruttezza. Non sembra che vi sia altra dignità.
Napoli qui docet insuperata ed insuperabile! Essa è una liquida voragine luminosa sotto le furie del Vulcano, in cui proprio tutto, a diverse profondità, galleggia. Dunque non per caso, da sempre, luogo di profonda sapienza. La sapienza del comprendere ultimo…
Ed ora con questo, amici, proviamo a guardare Lisbona. La sua una discreta, a volte smagliante, a volta compromessa, bellezza…
Scendendo da Amoreiras verso Estrela, ecco lì in fondo, sottilissima, quasi impercettibile (se il led della contemplazione non fosse acceso!), la sfolgorante lamina d’oro del fiume sopra i caseggiati. In pratica tutta la città, scivolata davanti ai miei piedi ed affastellatasi sotto e dentro il Tejo. È oro per davvero, bianco e puro. Forse proprio quello che un giorno accese i sogni febbrili di questa gente intrepida. Ma alla mia destra poi il solito monito estetico-spirituale di Lisbona: il cielo strenuamente azzurro sopra candidi comignoli. E del resto basta guardarsi intorno per rendersi conto che la città ti sta intanto sorridendo nell’affastellamento di rosa, grigi e bianchi sotto il cielo sfolgorante.
Così l’occhio corre lungo le facciate di squisiti palazzi color grigio-crema con inframmezzata la splendida pietra bianca di spigoli e lesene. Tra questi qua e là gli ispidi ma lussureggianti campi incolti davanti a decrepite case già mezzo sventrate. I muri come denti erosi ancora si ergono con delicati piastrellati e resti di antichi e cari angusti passaggi spolverati un tempo della carezza di un tiepido sole. Sono vivi ancora vivi, mentre agonizzano in un interminabile sogno ad occhi aperti, costatando ancora stupiti l’inspiegabile essere esposto al sole delle loro viscere erbose. Finché non saranno per sempre seppelliti. Forse erano lì da quando il sublime e volgarissimo Maques de Pombal ri-eresse Lisbona su immense travi sepolte e maree di macerie dopo il Terraemotus. Che pena! Al loro posto saranno erette facciate non più grigio-crema ma grigio-ghiaccio, con vetrate specchianti ed atroci abbaini, in un improbabile stile germanico di conquista culturale. Infine ci si ritrova seduti ad un caffè, con alle spalle i rintocchi tonanti della bianca Basilica di Estela e davanti un’alta vetrata circolare oltre la quale, su un’acqua verde-petrolio dai cangianti ghirigori giallo-azzurri, nuotano anatre, oche e cigni. Ed intorno la gente al sole ridendo, seduta ai tavolini di ferro smaltati anch’essi di verde scuro. Lì gli splendidi capelli nero-ramati cascanti di una giovane donna ti colpiscono al cuore.
«Em Portugal tudo è pequenino», mi diceva un giorno Joaquim, ri-emigrato qui dagli USA. Eccola la piccolezza ordinaria e malinconica….
Ecco allora (come a Napoles!) i panni stesi sventolando sulla gialla facciata dallo splendore ora spento ora intensissimo, con da un lato un rettangolo verticale di ombra gettatovi con impressionante regolarità dal sole.
I panni sono già lì dalla mattutina Dämmerung (non è un crepuscolo ma lo sembra) dell’alba livida ed umida in faccia all’Oceano. Panni multicolori, avion, rosa scuro, grigio, rosso, con le braccia penzolanti. Ma ve ne è uno in alto che più degli altri intenerisce : ‒ solitario, color carne, con tre mollette rosse e verdi che a tenerlo. Più degli altri in balia del vento. Posseduto, scivola continuamente verso destra. Poi si acquieta e lascia sventolare debolmente appena un risvolto come una coda. Poi bascula. Poi freme. Per poi, coitado (poverino!) è lui ad esultare per primo appena la facciata grigia si impregna di sole e vi appaiono le ombre di uccelli plananti come su uno schermo cinematografico.
Alfama! Se ne parla tanto. Era l’antica Giudecca ed anche Kasbah ed anche luogo di residenza dei mouriscos, mezzo cristiani e mezzo mussulmani. Invisi a tutti. I binari del 28 (o Electrico) vi si arrovellano tenaci ma dubbiosi, sferragliando e cigolando da far pietà, come se serpeggiassero per i nostri Quartieri Spagnoli, tra bassi, bettolucce, panni stesi, afrori umidicci, odori di cucina miserabile. C’è forse qualcosa da conquistare lassù ai piedi del castello de São Jorge. Cos’è? Forse, come sempre, l’alta vedetta sull’Infinito?
E i vecchietti in coppola bercianti alle panchine di Estrela. Seduti in modo piuttosto composto per dei latini (ma loro sono molto più celti!), eppure si danno delle gran manate e di tanto in tanto sghignazzano. Chissà perché non giocano né a carte né a bocce. Come fanno invece i vecchietti dei Giardinetti ombrosi di Via Ruoppolo, a Napoli, o al Parque da Redenção a Porto Alegre. Il loro è forse lo spirito dimesso di questo popolo, sempre concentrato e chiuso in sé stesso, mentre cova in eterno la vocazione al dominio planetario dei mari. O quinto Imperio!. Gli spagnoli li hanno troppo umiliati. Poi gli inglesi, Salazar e la sublime Merkel fecero il resto. Ora non sanno bene chi sono e chi vorrebbero o dovrebbero essere.
Per il Parque da Estela, gioiello Belle Epoque, passeggiano anche ogni mattina i pavoni custoditi di solito dal custode in un alto recinto. Beccheggiando con la testa ritta si aggirano per le stradine circostanti emettendo a tratti il loro barrito. Il quartiere come un immenso pollaio domestico. Domesticità portuguesa. Amalia, l’eterna, la cantò nella famosa «È uma casa portuguesa con certeza…».
E tutto intorno, tra le bettole a buon prezzo come «A casa do Lavrador», si aggirano affaccendate e sempre preoccupate le vecchiette. Ve ne sono tre tipi molto diversi : ‒ la signora aristocratica in tailleur dalla splendida corona di capelli bianchi, la donnetta ingobbita in loden e pantaloni, e quella con il fazzoletto in testa e la faccia sofrida, spesso senza denti. È quella che più assomiglia alle vecchiette del nostrano Sud.
Ma nel melange non manca una discreta varietà antropologica.
Giovani e vigorosi operai molto maschio-latino. Come i nostri, ma più asciutti ossuti ed alti, mediterraneamente sopraccigliuti. Curiosamente vociano bertucciando. È il loro gergo di difesa da poveracci . Poi uomini tarchiati e tozzi dal ventre voluminoso (barrigudos) e dalla rubizza faccia larga e quadrata, che sgambettano veloci con uno sguardo pacioso. Infine sussiegosi borghesi, rigorosamente in blu scuro (azul marinho), con naso e labbro superiore inconfondibilmente celtico-ispanico, cioè respiratori buccali. E, per il resto, dappertutto donne bellissime, con i capelli corvini a manto da Madonna, labbra tumide, sorriso alla Gioconda, pelle candida. Splendori.
Il tempo qui è molto spesso fermo….
Minuscoli negozietti di cianfrusaglie con gli scaffali di legno colorato verde acqua e celeste. Tascas (trattorie) infinitesimali. Dietro le case, negli orticelli medievali (che sostennero Lisbona in molti assedii), ecco alti e svettanti gambi dei cavoli con le foglie in orizzontale disposte a sostenere il cielo. E dietro l’invariabile casetta a tegole rosse : quattro mura rozze e qualche finestra. Somiglia così struggentemente al “soppigno” (soffitta) di mia nonna nella vetusta città osca di Acerra. Oggi nella “terra dei fuochi”. Il giardinetto è solo un angusto rettangolo accanto alla sontuosa villa dalle preziose e svettanti verzure.
Le due eterne vocazioni vocazioni di questo popolo. Quella della miseria industriosa da padeiro (fornaio) e marinheiro mangiatore di sardinhas. E quella di una nobiltà volontariamente pigra, da “lavorare, non sia mai!”. Fu quella che conquistò e colonizzò il Brasile con i suoi sogni di grandezza.
Sì, qualcosa effettivamente si esaurisce qui, si chiude per aprirsi all’Ignoto. È forse la teorizzazione geografica dell’essere per la morte heideggeriano? Forse. Ma molto più, direi, vi si può leggere l’intuizione di una salvifica quanto improbabile Sprengung, sfondamento esplosivo del Tempo verso l’Eternità.
Non per nulla la gente qui è devota quanto mai si possa immaginare!