Un autore da rileggere
Maledetta Bellezza
Un Oscar Mondadori con tutte le poesie riporta alla luce Dario Bellezza, un poeta che ha esposto e raccontato se stesso come un simulacro di solitudine e dolore
Dopo la morte del poeta, avvenuta nel 1996, dell’opera di Dario Bellezza si è detto poco e si è scritto ancora meno. I versi dello scrittore romano, molto presente nei decenni Settanta e Ottanta nell’allora fervida vita letteraria della Capitale, sono stati come cancellati, offuscati dalla sua stessa leggenda, dalle vicende dolorose che condussero al tragico epilogo della sua esistenza, da quel gioco di simulazione e dissimulazione proprio del personaggio che Bellezza si era costruito addosso. Sarebbe necessario dunque, a quasi vent’anni dalla morte, rileggere con attenzione la sua opera, ripensare ai suoi versi con un nuovo atteggiamento critico, libero da quelle sistemazioni preconcette che hanno contribuito a relegare la sua poesia nei confini ristretti di una biografia fin troppo caratterizzata da un protagonismo spesso provocatorio e respingente, e che hanno finito per tenere i suoi versi lontani da antologie e panoramiche letterarie di varia natura.
Operazione non facile, considerati gli ostacoli di cui lo stesso Bellezza ha disseminato il suo percorso di scrittore e tenuto conto che la sua poesia è anche il risultato di un particolare clima culturale, quello appunto dei decenni sopra richiamati, difficile oggi da recuperare alla memoria senza avvertirne l’incolmabile distanza con il presente o senza reagire al ricordo con un moto di fastidio.
Un contributo fondamentale alla rilettura dell’opera di Dario Bellezza viene dalla pubblicazione di un Oscar Mondadori che raccoglie tutta la sua produzione poetica. Il volume contiene gli otto libri di versi pubblicati dal poeta, da Invettive e licenze, dato alle stampe da Garzanti nel 1971, fino a Proclama sul fascino, che vide la luce nel 1996, pochi giorni dopo la morte dell’autore, che di quella raccolta aveva comunque curato la sistemazione e l’organizzazione dei testi. Alle poesie in volume, si aggiungono i versi pubblicati in occasioni varie, su riviste o in edizioni minori, che vanno a costituire un’Appendice di notevole interesse. La pubblicazione mondadoriana evita così che Bellezza finisca per essere una «leggenda di se stesso, un poeta senza più opera», come scrive Roberto Deidier, che cura questa edizione di Tutte le poesie, e scrive un’introduzione che si pone come uno strumento critico indispensabile per avviare una rivisitazione dell’opera dello scrittore.
La poesia di Bellezza è spesso caratterizzata da un maledettismo ostentato e provocatorio, dall’esibita tendenza a rappresentarsi vittima di una società incapace di vivere la verità delle passioni, innanzitutto quelle di carattere erotico, e si nutre di una sorta di decadentismo tardivo e melodrammatico. La sua ansia di trasgressione è figlia di una borghesia apatica e noncurante, da cui il poeta fugge, ma che sceglie anche come principale interlocutore; il suo malessere è il prodotto di una città contro cui inizialmente scaglia i propri atti di accusa e che poi viene rappresentata in tutta la sua indolente precarietà, terreno propizio alla rinuncia e alla sconfitta. Le arrabbiate “invettive” delle prime poesie si trasformano nelle raccolte successive nel doloroso abbandonarsi alla disfatta, nella ricerca, feroce quanto continua, dell’annientamento morale e fisico. Il fallimento delle emozioni produce un teatrale senso di nostalgia che si indirizza verso la stagione della giovinezza, quando tutto era potenzialmente, ma poco realisticamente, possibile. «Leggiamo le mie possibilità amorose» annuncia il poeta nel primo verso di una poesia contenuta nella sezione Disamore del volume che si intitola semplicemente, ma sintomaticamente, io, per poi proseguire così: «Come avessi vent’anni, e andassi / per stracci, o fidanzate poco / credibili… La verità è che / non amo più, né sento niente / dentro di me se non sommessi insulti / a quel colui che ero, che non sono / più, tranne vendendo i reliquari / di me stesso…».
Nei suoi esiti migliori la poesia di Bellezza si concentra sul trascorrere del tempo, anzi sul constatare come il tempo utile sia già tutto e sempre passato, lasciando un ammasso di rovine che sono quasi interamente interiori e ponendo l’io al centro di un paesaggio desertico, dal quale salvano solo le piccole attività del quotidiano, nell’esaltazione, non si sa fino a che punto sincera, del minimo orizzonte domestico: «Non c’è niente di meglio che barare; / stare in cucina cucinando un minestrone. / Si svuoterà il frigo zeppo di cicoria, / pomodori passati, carote e zucchine»; dichiarazione che si muove tra l’ironia e la rinuncia a prospettive più vaste e che porta il poeta a concludere: «Il trionfo vero / è quello della quotidianità».
O ancora i versi raggiungono una tranquilla e dolente verità quando ad essere protagonista è uno dei gatti tanto amati: «Mi costringi / a queste poesiole infantili / che rallegrano solo chi le scrive / in un’epoca di trapasso e solitudine / mentre aspetto eventi stranieri / sconvolgenti la mia già lontana / vita. Gatta amata / non ascolti la mia supplica, / non voler morire. I treni / torneranno un dì pieni di ragazzi / festosi le piazze risuoneranno / di fisarmoniche e mandolini; / noi saremo insieme in un viaggio / strepitoso mangiando cremini / e leccandoci i baffi». L’esasperazione in senso drammatico del dolore e la sua simulazione, il nascondersi dietro la maschera del poeta maledetto e dell’esteta, quando si compongono e si confondono con i modi della quotidianità casalinga, realizzano forse l’esito più vero e alto della poesia di Bellezza.