Giorgio Morandi al Vittoriano
Il Maestro di via Fondazza
Casto e schivo ma pieno di gusti sani e vivaci, popolare e aristocratico, aperto ma fermo, rigoroso e ironico... Ritratto d'autore del grande artista a cui è dedicata una bella retrospettiva che si inaugura oggi a Roma
Si inaugura oggi a Roma (da domani, 28 febbraio, aperta al pubblico, fino al 21 giugno), al Complesso del Vittoriano, la mostra “Giorgio Morandi 1890-1964”. Curata da Maria Cristina Bandera, direttrice della Fondazione Longhi e specialista di Morandi, la rassegna ripercorrerà l’intero cammino del pittore bolognese attraverso una nutrita selezione di opere, provenienti da collezioni pubbliche e private. Succedeoggi ricorda il grande artista riproponendo questo efficace ritratto di Leone Piccioni pubblicato nel volume “Maestri e amici” (Rizzoli, 1969)
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Sono varie volte andato a Bologna a trovar Morandi:anzi ho visto Morandi solo a Bologna, per lo più nella sua casa, raramente passeggiando fino a un ristorante per far colazione insieme. Per andare nel suo studio, a vedere i pochissimi quadri che erano via via in preparazione (rifatti due, tre, cinque volte, quante? e via via senza ritocchi, ma rigrattando tutto e ripartendo dalla tela grezza), si passava – si sa – dalla camera da letto delle sorelle: due alti letti di ottone (se la memoria non m’inganna), un cassettone sulla destra e sopra qualche cosa di raro. Anche una sorta di miniatura o icona etiopica, se non sbaglio, antica e di gran pregio.
Ma a parlare del più e del meno, a dire aneddoti e battute, a inserirne lui, distaccate e brucianti, si stava con Morandi attorno al tavolo da pranzo, sotto un vecchio lume rotondo. La casa su via Fondazza, stretta, arroccata tra i portici, la finestra dello studio su un cortiletto breve, un albero: cortile, albero più volte dipinti in quadri indimenticabili (Nicola Lisi – l’ho detto – ha una vista di quel cortile e di quell’albero con la neve dell’inverno bolognese di suggestione prepotente). Alto alto, magro ma forte, il viso segnato, pronto a divenir maschera per polemica, per ironia o anche per controllata allegria, le braccia così lunghe da non sapere dove metterle, e quando s’accarezzava, o si grattava il mento ascoltando o prima di dire le cose più precise che intendeva posar lì perché rimanessero, con l’aria di non saper nulla di nulla, sapendo tutto di tutto, svagato e invece attentissimo – Morandi aveva addensato in sé e nel suo lavoro significati interi, continui, approfonditi sempre, non smentiti mai, da rappresentar per noi, lungo l’arco della sua vita, quello che solo un paio di poeti avevano, anche se in senso differente, significato. C’era insomma per l’amor di letteratura della mia età, e per quello che è rimasto, una guida, una delle guide più forti: Morandi, in un certo senso, per la pittura – ma non soltanto per quella – meglio di tutti la
rappresentava e la rappresenta: il rigore, il dir la stessa cosa per dirle tutte insieme, per forzadi variazioni interne, così come più di una volta ci si potrebbe innamorare, e in fondo è sempre lo stesso sentimento, la stessa disponibilità d’amore, che varia, indipendentemente, perfino dalla Laura che non si cerca (che non si «troverebbe », come Leopardi rivela), ma che di perpetuo s’inventa a proprio modo.
Questa capacità (o fosse pur suggestione) inventiva che emanava dal lavoro di Morandi (tutto o quasi tutto di primissimo ordine: ben diverso in questo dalla sorte dei pur grandi o cari De Pisis, Rosai, Carrà), di nuovo, ecco, che di persona la vedevi sorgere da un carattere e da un fisico legato alla terra, e alla natura popolare; preciso in discorsi concreti, pieno di un buon senso continuamente sorretto da pungente ironia, tale da non farsi implicare in cose di noi più grandi, disincantato sempre.
Gli riferivamo i prezzi ai quali erano via via arrivati i suoi quadri (e lo sapeva benissimo, ma faceva finta di nulla), noi che le cose che avevamo di lui (e che terremo sempre con noi), le avevamo acquistate in quella casa, sotto quel lume a 30-40 mila lire: ascoltava quei
nuovi prezzi, si metteva a ridere: «Ah sì davvero! Se ne accorgeranno, se ne accorgeranno: bell’affare che hanno fatto; staranno freschi… », in bolognese, a ridersela di gusto. Sapesse, ora, dove stanno arrivando!
Chi l’ha conosciuto bene ed è stato per tanti anni accanto a lui, dovrebbe raccogliere tanti suoi detti, tanti episodi, tante indicazioni del lato umano del suo essere: con la vocazione a raccogliere in stretti simboli tutte le cose della terra (e gli ultimi acquarelli, dove andavano con quei rapporti di bianchi e colori, di ombre e luci?) e il suo modo schietto e diretto di parlar di tutto; casto e schivo ma pieno di gusti sani e vivacissimi; popolare e aristocratico insieme; aperto ma fermo su certe difese, tale da non perdonare nemmeno all’amico più caro certo modo di fare (in uso negli anni del dopoguerra) demagogico.
Andai a Bologna nella primavera del ’64 per ascoltare un concerto della musica nuova di Charlie Mingus: e il pomeriggio, come usava, senza nemmeno preannunciarmi passai da Via Fondazza a salutarlo. Una sorella mi accolse, come sapeva, con tanta civile simpatia, e mi disse che Morandi era malato, lo disse con tono stanco e triste, capii che s’era addensato qualche cosa di irreparabile nella bella casa di tante dolci e sollecitanti ore. Morandi era vicino alla fine, era malato da tempo: silenzioso lui e chi gli stava attorno. Non ne sapevamo niente. Se ne andava, come aveva vissuto, con intera sobrietà.