In scena all'Argot di Roma
L’ultimo Ibsen
Come distribuire affetti e speranze familiari? «Dall’alto di una fredda torre» di Filippo Gili (autore) e Francesco Frangipane (regista) affronta un tema classico ma sempre bruciante
Il titolo ricorda un tormentato e complesso dramma di Hugo von Hoffmannsthal in cui si racconta la vicenda di un principe rinchiuso in una Torre perché gli astri hanno indicato in lui l’uomo che rovescerà l’Ordine (memorabile resta di quest’opera la messinscena firmata da Luca Ronconi al Fabbricone di Prato nel ’78). Dunque, tra i tremori di inizio Novecento – e con non pochi echi del teatro barocco di Calderón del Barca – ci viene mostrata qui una straordinaria metafora della crisi dell’uomo moderno, della perdita di ogni certezza, di quel vuoto esistenziale che, privo di appigli ideali, morali, trascendenti, inghiotte ogni possibile ricerca della serenità e, tanto più, ogni possibile riscatto dalla morte.
In un certo senso, Dall’alto di una fredda torre di Filippo Gili (autore) e Francesco Frangipane (regista), lavoro in programmazione all’Argot di Roma nelle scorse settimane, è uno spettacolo che affronta questa medesima crisi. Un dramma familiare, generazionale e individuale, intriso di temi classici e di richiami ai miti di Edipo e dell’Orestea, che si pone e ci pone con spietata lucidità sulla linea di confine tra la Vita e la Morte. Come nel precedente Prima di andar via (messo in scena sempre da Frangipane e poi trasposto sul grande schermo da Michele Placido in una pellicola presentata al Torino Film Festival 2014), Gili fotografa una famiglia medioborghese di oggi (una madre, un padre e due figli, un maschio e una femmina, già adulti ed economicamente indipendenti) la cui ordinaria quotidianità viene scossa da un dilemma apocalittico. Anche qui, inoltre, la famiglia si riunisce a tavola e la tragedia esplode o implode mentre si sta insieme per cenare o pranzare. Anche qui l’autore gioca tragicamente con il destino, affidando ai figli il compito di una scelta brutale e impossibile: decidere della vita o della morte dei genitori.
Se infatti in Prima di andar via, il giovane protagonista Francesco (tra l’altro interpretato dallo stesso Gili), durante una cena, annuncia ai suoi familiari di non reggere più il dolore per la scomparsa della moglie e la sua intenzione di suicidarsi prima che arrivi il nuovo giorno, in quest’ultimo lavoro la trentenne Elena (una splendida Barbara Ronchi, capace di una mutevolezza espressiva sempre molto naturale e credibile) e il più compassato fratello (Massimiliano Benvenuto) devono scegliere se far sopravvivere il padre o la madre, entrambi affetti da una grave e identica patologia curabile esclusivamente con un trapianto di cellule staminali. Solo i figli possono donare le staminali. Un unico intervento di espianto è concesso ai donatori. Bisogna fare in fretta.
Destino vuole però che siano “buone” solamente le cellule di Elena e che, di conseguenza, uno dei due malati non possa aspirare al trapianto. In definitiva: chi salvare? Chi mandare a morte? Quale criterio adottare in questa scelta? Può funzionare, può avere senso, decidersi per il criterio dell’amore? È così facile cioè misurare se si ami di più il proprio padre o la propria madre? Impossibile rispondere. Siamo nel cuore di un dilemma amletico che non promette vie di fuga. E la storia, pur se possiede degli indubbi caratteri da dramma ibseniano, sembra dipanarsi quasi come fosse un rito, una solenne sacra rappresentazione medievale scandita in quattordici quadri tenuti insieme da un perno centrale che coincide appunto con la tavola. I quattro interpreti principali (davvero bravi Michela Martini che è la madre e Ermanno De Biagi, il padre) accolgono il pubblico mentre sono già seduti a mangiare; la scena è posta al centro della sala, in un Argot diverso dal solito dove la visione avvolgente e circolare degli spettatori ancora meglio fa somigliare la storia ad una battaglia impietosa, ad un sacrificio disumano.
Tanto più che il gioco della torre è esplicitato sin dalle prime battute: «Se ci fosse un attacco terroristico qui a casa nostra tu, mamma, chi salveresti dei tuoi figli?», chiede Elena ridendo e masticando. È solo il primo quadro di questa lunga cena che (non priva di momenti più deboli e di scene a mio parere inutili come quelle ambientate nello studio medico) pretende di ripetersi identica a se stessa, mentre tutto intorno crolla. E mentre crolla soprattutto il mondo emotivo dei figli e di Elena. In sospeso tra la vita e la morte, probabilmente lei deciderà di non donare le sue staminali a nessuno dei genitori. O forse no. Forse deciderà in altro modo. Poco importa, perché il cuore del testo non sta nel suo epilogo. Il cuore del testo è l’incontro con la morte; è lo sconquasso della sua presenza/assenza appiccicosa. E fa bene Frangipane a scegliere una regia sobria, pulita, semplice, accurata nelle sfumature interpretative e nello spessore emotivo delle battute (battute dove a volte si insidia il rischio di un’eccessiva letterarietà e altre volte quello di un’eccessiva esplicitezza), perché ci vuole questo minimalismo accorto e policromatico per entrare nelle pieghe di una storia così esemplarmente e anticamente tragica.