Cattiva maestra televisione
I Soprano e Panariello
Un saggio di Alan Sepinwall sul male in tv negli Usa si offre come spunto di riflessione sul cattivo gusto televisivo qui da noi. Dove anche la misoginia diventa "equilibrata ed elegante" se fa ascolti
La televisione italiana, privata e pubblica, cioè di Berlusconi e non, continua a compiere scivoloni verso il basso e non solo per la qualità dei suoi talk show o delle sue serie. Anche degli spettacoli di intrattenimento. È il riflesso di un “paese per vecchi” abituati al cerone un po’ pesante dell’avanspettacolo a cui la battuta un po’ “grassa”, meglio se misogina, piace sempre. Che vent’anni di berlusconismo hanno incoraggiato e sostenuto. Un costume davvero difficile da sradicare. A conferma di ciò,basta guardare l’ultimo festival di Sanremo dove un comico di fama nazionale come Giorgio Panariello ancora cercava di far ridere con battute misogine da anni ’50 sulle «ministre belle contro quelle brutte». E nessuna voce femminile di rilievo insorge. Unica eccezione: Daniela Brancati firma storica del giornalismo televisivo pubblico che sul blog del Corriere della sera, La 27 ora, critica non solo il comico toscano per la volgarità della battuta, ma anche la presidente della RAI Tarantola per avere definito l’edizione appena passata della competizione canora «equilibrata e elegante». Ciò, aggiungo, risulta particolarmente anacronistico in quanto ormai nel mondo anglosassone, e in America in particolare, la televisione ha imboccato un percorso in salita molto diverso dal passato che la mette in diretta concorrenza con il cinema. In alcuni casi superandolo in qualità.
Come Alan Sepinwall in un libro ormai famoso The Revolution was televised del 2012 (tradotto in italiano con Telerivoluzione pubblicato da Bur/Rizzoli nel 2014 con una bella prefazione di Carlo Freccero) ha infatti rilevato, c’è stata una rivoluzione nella televisione iniziata con gli anni ’90 e che continua ancora oggi a dare degli egregi risultati. Ormai anche i grandi attori del cinema hollywoodiano, diversamente dal passato, fanno a gara per essere parte delle serie televisive più popolari. È il caso di Kevin Spacey interprete principale della serie di grande successo House of Cards e di Matthew McConaughey e Woody Harrelson che meravigliosamente recitano in True Detectives. E dunque che cosa è cambiato rispetto a prima? Intanto, come scrive Sepinwall, il fatto che le serie televisive venivano soprattutto prodotte dai canali classici tipo ABC NBC o Fox mentre HBO o Showtime avevano solo qualche serie comica di loro produzione, ma niente altro. Principalmente repliche di vecchi film. Invece in quegli anni queste reti hanno cominciato anche la loro produzione originale di serie televisive. E il pubblico ha iniziato a suddividersi in una serie di nicchie più piccole cambiando il proprio modo di guardare la tv.
Su questi canali apparvero tra gli anni ‘90 e i primi del nuovo millennio I Soprano, The Wire, The Shielde nelle reti come ABC e Fox Twin Peaks (scritta tra gli altri anche da David Lynch) e X-Files che portarono sullo schermo violenza, antieroi senza rimorsi, sesso, un linguaggio più colorito e spesso irriverente in una competizione all’O.K. Corral per conquistare fino ultimo spettatore. Questo determinò una rivoluzione senza precedenti sia nei contenuti delle storie, che nei tratti dei personaggi principali. Perno di questa rivoluzione che cambia tutte le regole del gioco sono proprio I Soprano il cui personaggio principale, Tony Soprano, è un mafioso del New Jersey interpretato dal mai compianto abbastanza James Gandolfini a cui, puntata dopo puntata, nonostante tutto, ci affezioniamo malgrado la violenza, la crudezza e soprattutto l’indifesa esposizione del male che come nessun altro questo personaggio fisicamente incarna nella sua banalità quotidiana. Ma che proprio per questo punta il dito, e lo dico come Malpensante, sul rispetto della legalità, sull’esistenza di conflitti irrisolti verso cui dirige l’attenzione. Ovviamente per sua natura senza soluzione. Non è suo compito e non era nelle corde di David Chase, il creatore del programma. Perché se è vero che in questa serie il crimine paga, tuttavia Tony sa perfettamente, e lo dice anche, che alla fine del gioco a lui toccherà o di morire ammazzato o di finire in galera. L’espansione anche fisica di Gandolfini durante le varie sequel della serie, oltre che una nota puramente estetica, rivela la conferma del suo status assieme alla sua incapacità di compiere progressi come essere umano, di trasformarsi, malgrado le sedute di psicanalisi. Si espande come personaggio e si rafforza nel suo agire da criminale. Anzi peggiora, rivelando la visione profondamente cinica dell’umanità de I Soprano che per loro natura non possono cambiare.
Un’accusa pesante che spesso non è stata capita specie dalla parte più retriva della comunità italoamericana che ha invece accusato Chase di denigrare gli italiani d’America senza capire che il suo obiettivo andava proprio nella direzione opposta. Questo lo sanno bene Anthony Tamburri e Fred Gardaphé, giusto per nominare alcuni dei professori che per anni si sono battuti per spiegare il significato profondo dell’importanza di questa serie non solo per gli italoamericani, ma per tutta la società americana che è quella davvero messa sotto accusa da questa serie, perfino implicando indirettamente forme di discriminazione nei confronti di quel gruppo etnico.
La serie non dava agli spettatori ciò che volevano, sviava dalla soluzione dei conflitti che apparivano inevitabili, ma puntava il dito verso la loro esistenza. «I Soprano sfida il pubblico – scrive Sepinwall – anziché coccolarlo… usa un genere per dipingere l’America. E a giudicare da quello che mette in scena, Chase non lo ritiene un gran bel ritratto». È il ritratto di un paese dalle radici materialistiche: «Non cose o persone di valore ma genitori e figli pigri, miopi, viziati». Che parla di persone che non cambiano e che non possono cambiare. Non ne hanno gli strumenti. «In molti sostengono che il tema principale de I Soprano sia l’impossibilità del cambiamento – afferma Chase –. Non è questo il tema della serie, non è questo che volevo dire o sottintendere. Il cambiamento non è impossibile, anche se è molto, molto difficile anzi raro… credo che nel complesso la visione della vita che si evince dalla serie non sia né buona né cattiva: è una visione triste. C’è molta amarezza ne I Soprano. Si vorrebbe piangere, ma non lo si fa o non lo si può fare» conclude Chase. E tutto ciò lo porta compimento attraverso personaggi egoisti, violenti, senza scrupoli. Ma senza una condanna moralistica.
L’America mi appare sotto la suggestione di Chase, come la tromba di Chet Baker: sola, triste, grande. E proprio per questo affascinante e struggente. Un gigante che si contorce su stesso affetto da un malaise endemicoil cui corpaccione si agita di brividi e di dolore senza riuscire a guarire. Senza cercare davvero una cura profonda che lo risani alla radice. La serie addita all’attenzione del pubblico molti di questi problemi portando alla luce anche lo status dormiente dell’audience troppo abituata a essere passiva nei confronti di quello vede e che le accade intorno. Dunque strapazzando il pubblico, ma fornendogli anche una coscienza critica. Un po’ come fa Tarantino in Pulp Fiction nella scena dello scantinato con lo storpio in tuta di pelle che rappresenta proprio il pubblico incapace di reagire mentre viene malamente strapazzato da Bruce Willis e Ving Rhames. È una scossa benefica. Che addita allo stesso però l’esistenza di una realtà esterna e la necessità di recuperare una capacità di discernere gli eventi visuali soprattutto esercitando una capacità critica. D’altra parte le serie televisive degli ultimi anni, successive cioè alla crisi del 2008 che ha aggravato la situazione, concentrano l’attenzione verso gli esclusi, gli invisibili, siano essi poveri, neri, donne. E non a caso quasi tutte o perlomeno le serie più belle provengono dal Sud profondo e più arretrato di un’America sofferente, che di più rivela una discriminazione e un razzismo mai eradicati dal suo tessuto sociale. Così facendo additano l’esistenza di conflitti che rendono visibili questi outsider. Dando però anche la misura della necessità che i conflitti rappresentano la salute degli individui e della democrazia. Siano essi quelli del detective alcolizzato e tormentato da fantasmi del passato di True detective o quelli del giovane carcerato che ha passato più anni in prigione che fuori di Rectify o quelli ancora dei vari personaggi di un quartiere decentrato della città di New Orleans dopo l’uragano Katrina di Treme.
Nel film, appena uscito, Selma della regista nera Ava Duvernay sulla marcia del 1964 di Martin Luther King in Alabama si coglie una grande tensione che rimanda alla situazione dei neri negli anni ’60 subito dopo la proclamazione della legge sui diritti civili da parte del presidente Lyndon Johnson, ma ancora in lotta per ottenere un pieno diritto al voto. Una battaglia che fu difficile da combattere anche in presenza di una legge che aveva loro dato la dignità di cittadini di serie A, perché non aveva fatto i conti con il costume di alcune zone del paese in cui il pregiudizio razziale era ancora vivo, forte e dove ancora si pretendeva che i neri rimanessero invisibili. E che ancora oggi dopo cinquant’anni, specie dopo i recenti fatti di Ferguson di quest’estate, rende attuale l’argomento. Ecco perché le battute misogine, omofobiche, razziste devono essere bandite. Non possono essere argomento su cui scherzare cosi superficialmente.
Che la Rai rifletta sul pericolo che esse possono rappresentare anche in tempi non sospetti. Perché se è vero che i comici devono necessariamente dissacrare e anche scherzare sul politically correct è anche vero che ormai battute come quelle di Panariello sono vecchie e anche un po’ volgari. E soprattutto non fanno ridere. In America avrebbero provocato grandi reazioni e non solo da parte delle donne. Il canale televisivo l’avrebbe pubblicamente fortemente redarguito dopo averlo mandato via. Inoltre batture come queste diluiscono nel grande brodo della satira qualcosa che invece va a toccare le corde profonde di un sentimento ancora fortemente presente nell’immaginario collettivo di un paese, l’Italia, sotto questo punto di vista, purtroppo ancora profondamente misogino e pertanto arretrato.