Una raccolta pubblicata da Archinto
Guerra a D’Annunzio
Nelle lettere inviate dal fronte della Grande Guerra, Giuseppe Ungaretti esprime il dolore della sua identità di soldato e se la prende con il Vate, «eterna modella che fa le moine mentre qui si muore».
«Le ventisei lettere, qui per la prima volta pubblicate, furono scritte da Giuseppe Ungaretti a Mario Puccini tra il marzo e il dicembre del 1917», così il curatore Francesco de Nicola (Giuseppe Ungaretti, Lettere dal fronte a Mario Puccini, Archinto, 2015, 16 euro) presenta la raccolta. Le lettere sono scritte dal fante Ungaretti e sono vergate con l’ansia di ottenere aiuto. È un aiuto semplice, quello che Ungaretti vuole dall’amico Puccini, editore con cui si è scontrato negli anni precedenti, ora ufficiale presso il Comando Supremo. Ed è sempre la stessa cosa, richiesta in diversi toni, sempre con grande urgenza. La prima lettera, il cui voi già dalla seconda si trasformerà in tu, è l’avvio di denunce insistenti del proprio malessere fisico e nervoso, che sta spingendo il fante a opporsi alla promozione al grado di ufficiale. Una promozione a portata di mano, giacché il suo reggimento (il 19°) lo aveva trasferito in zona arretrata proprio per frequentare il corso: «Sono di una costituzione debolissima, e lo sai, arrivare al mio posto in ritardo – dopo aver vagato un certo po’ ed aver ruzzolato nel fango – da soldato più o meno può andare, ma da ufficiale? (…) In coscienza, non ho il diritto di assumere nessuna responsabilità di grado» (lettera n. 2).
Man mano che le lettere scorrono, la richiesta manifesta un’urgenza, che forse imbarazza l’amico se, come sembra chiaro, Puccini non riesce a venire a capo di una procedura tanto elementare quanto, secondo gli standard dei militari, incomprensibile: «Non chiedo che di rientrare da una presidiatura a un reggimento, rinunciando a 2 mesi d’inabilità: s’intende al 19° fanteria» (lettera n. 12). Ci sono passaggi dolenti: «Ho bisogno di tornare al mio reggimento. Ne ho condiviso le sorti per 16 mesi. Vi ho patito, e vi ho trovato tanto affetto, dal colonnello al più umile soldato; vi ero idolatrato. Ti chiedo questo poco. Chiedo da una presidiaria di riandare a un reggimento combattente, al mio 19°». Le richieste diventano ossessive e culminano nel mese di luglio in disperazione: «Tu sai, quanto me e meglio, che il “pensiero burocratico” è un intralcio alle cose anche più elementari e logiche; (…) in fin dei conti non sono che un soldato che non si tratta di favorire, ma di aiutare a compiere il suo dovere», quasi un grido contro la malattia burocratica che infierisce sulla tragedia della guerra (lettera n 17), espressione di un’etica dura e scarna che matura nella prima linea.
Intarsiano il testo considerazioni sui personaggi dell’ambiente che gli è vicino dal punto di vista letterario, come Apollinaire, Pea. Papini e quel tenente Ettore Serra che gli ha stampato il primo volume di poesie, Porto sepolto, a Udine nel 1916 in 80 copie. Sul Resto del Carlino del 4 febbraio 1917, Papini gli ha dedicato una recensione che «mi riempie di felicità ogni volta che mi ci rifermo», gli scriverà il poeta un mese dopo. Anche i nemici letterari trovano posto nella lamentazione, come D’Annunzio (nella foto sopra) nella lettera n. 22: «Per avere umilmente servito il mio paese non merito almeno una minima considerazione? Ah per D’Annunzio che fa le “le pose plastiche” in ginocchio dinanzi ai feretri, col lembo della bandiera in mano… dinanzi al fotografo sempre immancabile, per quest’uomo che “ nausea” i nostri soldati, per questa “eterna modella” che mentre in ogni casa d’Italia c’è il lutto, mentre qui s’è soverchiati da questa tremenda sofferenza che è la guerra, fa il falso esteta, ci sono tutti i riguardi e le moine».
La 25a lettera, datata novembre 1917, è scritta dopo la rotta di Caporetto: «Ho seguito il pellegrinaggio, stordito, per il Vallone per il San Michele per Sdraussina lungo i cimiteri dove si lasciavano tanti morti che m’erano stati cari in vita, che avevo visto partire schiantati in piena speranza increduli della morte, sebbene docili, poveri compagni lontani. Stordito d’essere ancora, sulla terra, un uomo che sentiva il peso del suo corpo fragile, l’inutilità del suo peso avvilito… Puccini mio, non ho sofferto, sarebbe stata una forza; l’uomo ha la necessità di soffrire come ha quella di respirare l’aria; mi sono sentito senza cuore e senza pensiero, eppure vivo; ma buttato via come una pietra da una violenza bruta». Risuonano i motivi della raccolta del 1916, quel concentrato di emozione misurata e di significato scavato nel profondo che sono i versi desolati e potenti, le poche parole che si addensano, piccoli preziosi segni sul quadernetto della trincea. La poesia seminata nel deserto della gioventù ad Alessandria sta fiorendo nel Carso, segnato dall’Isonzo «di asfalto azzurro»; poesia antitetica a quella dannunziana, da cui si discosta per tutto, a partire proprio dall’etica patriottica che pure la anima, così diversa.