In memoria di un Maestro
Il Gadda di Ronconi
Nel 1996 Andrea Carraro assistette alle prove del "Pasticciaccio" di Ronconi, uno degli spettacoli più importanti del regista scomparso. Ne nacque un reportage: eccolo
Non è stato facile assistere alle prove di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Luca Ronconi, adattamento teatrale dell’omonimo capolavoro gaddiano, al teatro Argentina di Roma il 20 febbraio del 1996. C’è voluto uno sfibrante giro di conferme e riconferme telefoniche prima di ottenere dalla capo ufficio stampa del Teatro di Roma il benestare. «Solo dalle due alle cinque, oppure dalle cinque alle sette», mi ha ammonito con garbo la gentile signora.
Così mi sono rassegnato alle smilze due orette concessemi. Quando sono arrivato, piazza Argentina brulicava di gente e di automobili, come sempre. La Feltrinelli stracolma. Sul marciapiede accanto alla libreria, sopra una copertaccia sfilacciata e bisunta, bivaccavano un barbone con marcati tratti da slavo e due bastardoni sonacchiosi. Contro il muro un cartello: «100 lire per voi non sono nulla. Per me sono la vita». Un po’ oltre un altro barbone e poi un banchetto dove due giovani raccoglievano firme per la Lotta all’Aids. Tutt’intorno passanti frettolosi, dalle facce aggrondate e un concerto assordante di clacson. Il tutto in una nube fitta di smog attraverso cui si distingueva appena, oltre i ruderi, al di là della piazza, la curiosa insegna luminosa d’un negozio: «Qui si risparmia».
Entro nel teatro dall’ingresso degli attori, ch’è affogato in una traversetta semibuia stretta fra alti palazzi dall’aspetto decadente. Vengo annunciato da un portiere alla persona con cui ho parlato per telefono, che viene ad accogliermi sorridente. Mi conduce nell’interno, attraverso un dedalo di corridoi e di locali di disimpegno, illuminati da una chiassosa luce al neon. Sulle pareti corrono un po’ ovunque grossi cavi elettrici mentre per terra intralciano la via i più disparati materiali di scena.
Alcuni operai stanno tirando su un’impalcatura e ci fanno segno di aspettare per evitare incidenti. Sotto di loro, ai piedi della scala, affissa a una trave di legno, c’è una trombetta acustica, che di tanto in tanto libera il suono stridulo d’un clacson, facendomi sobbalzare. Ed eccomi finalmente dinanzi alla vasta platea del teatro. Al centro, il regista e un giovane collaboratore. In fondo, un lungo tavolo dietro cui trafficano i tecnici del suono e delle luci. Il palco è occupato soltanto da un vecchio side‑car color grigio, un paio di seggiole e un fondale scuro. Faccio per accomodarmi, ma la mia accompagnatrice e un paio d’altre persone mi s’accostano e mi pregano di abbandonare la sala. «Se non le dispiace, dovrebbe accomodarsi in un palchetto».
Nulla da ridire. Ne troviamo uno libero proprio sopra alla enorme consolle dei tecnici. Sotto di me, una teoria di tastiere, di computer con schermi iridescenti, d’altre numerose strumentazioni elettroniche a me ignote. Il regista si accosta e mi saluta. Io gli stringo la mano, poi mi appoggio con maldestra nonchalance alla parete di velluto rosso, senza accorgermi che in realtà è uno smilzo tramezzo divisorio di compensato. Infatti si piega, e per un pelo non ruzzolo nel palchetto attiguo. Resto in equilibrio per miracolo. Con un sorrisetto ebete stampato sul volto, mi ritiro su, rimetto alla meglio il tramezzo foderato al suo posto. Il regista deve aver visto tutto, ma per discrezione finge il contrario e si allontana.
Sta per cominciare la prova della settima scena, allorché il brigadiere Pestalozzi a bordo della sua motocicletta esce dalla caserma e si reca a casa della Zamira per estorcerle la confessione sui gioielli rubati, quando mi accorgo di un ragazzo sei o sette file davanti a me, in platea, che osserva il palco concentrato con un blocco di appunti in mano. Tuttavia, quando il monologo del brigadiere sta per concludersi, questi già ronfa della grossa, sprofondato nella poltrona, con la testa arrovesciata indietro e la bocca semiaperta. Ma torniamo al monologo del Pestalozzi, fedele alla lettera al testo gaddiano, che procede in questa parte nel segno del pastiche, dell’agnizione letteraria: «Il sole non aveva la minima intenzione di apparire all’orizzonte che già il brigadiere Pestalozzi usciva (in motocicletta) dalla caserma degli erre erre ci ci di Marino per catapultarsi alla bottega laboratorio…». Siamo di fronte a una «comica parafrasi manzoniana… sul pedale però ambiguo di un omaggio‑sberleffo»: cito dall’acuta prefazione di Piero Gelli all’edizione in economica del romanzo, l’unica di cui dispongo.
Il monologo del brigadiere introduce perfettamente al clima del lavoro di Ronconi, che mescola il discorso libero indiretto a una specie di monologo interiore in terza persona, al dialogo, senza soluzione di continuità, in un impasto di marca espressionista che è proprio dell’opera letteraria e che la riproposizione teatrale in qualche modo amplifica attraverso le soluzioni sceniche ma soprattutto la recitazione straniata degli attori. Questi sono infatti chiamati a un’impresa fra le più ardue: l’adesione mimetica del parlato nelle parti dialogate, un certo distacco fino a un totale straniamento nelle descrizioni – da essi stessi recitate – delle proprie azioni e pensieri e sogni e ossessioni. Non v’è traccia d’una qualunque adesione al plot “giallo”, nessun tentativo di rendere “realisticamente” la narrazione, come fece ad esempio Germi nel suo bel film del 1959 Un maledetto imbroglio. Né Ronconi ha pensato di rifarsi alla sceneggiatura “Il palazzo degli ori”, scritta dallo stesso Gadda (che fra l’altro non fu utilizzata neppure da Germi nel film). Il progetto di Ronconi è restituire – e anzi esasperare – quei processi di accumulo, di moltiplicazione che sono caratteristici del racconto. In ambito linguistico innanzitutto: mescolanza di linguaggi alti e bassi, di prosa d’arte e di parlato dialettale, bastardo, borghese, plebeo. Una stridente alternanza di comicità, nevrosi e tragedia; di coralità e di scandaglio psicologico.
Un progetto che si va palesando meglio nelle scene successive, fino all’urlo finale dell’Assunta, «No, nun so’ stata io!», gridato al commissario Ingravallo, e al commento di quest’ultimo, che conclude la nona e ultima scena: «Il grido incredibile bloccò il furore dell’ossesso. Egli non intese, là pe llà, ciò che la sua anima era in procinto d’intendere. Quella piega verticale tra i due sopraccigli dell’ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi». I due attori guardano innanzi a sé, pietrificati, calati in una scenografia spoglia che accentua la tragica solennità del momento, dinanzi all’enorme letto d’ottone dove giace sotto le coltri disfatte il padre moribondo della ragazza. Un finale di grande intensità, appena disturbato dalla recitazione un po’ troppo enfatica della giovane attrice. Alla fine della scena infatti Ronconi sale sul palco e si attarda con lei diverso tempo, facendole provare e riprovare la battuta.
È stata dura arrivare fin qua, ma ne valeva la pena. E soprattutto vale la pena di vederlo, questo inedito Pasticciaccio di Ronconi.