Le più belle conquiste scientifiche del '900
Il tempo? Non esiste (forse)
Con una prosa chiara ed elegante, Carlo Rovelli nelle sue “Sette brevi lezioni di fisica” ci mostra un universo simile a un contenitore a fisarmonica incantevole e poetico. E ci invita a riflettere su due gemme inestimabili che hanno cambiato il nostro modo di vivere: la relatività generale e la meccanica quantistica. Arte pura, in vero senso shakespeariano...
«Lo spazio non è piatto, è curvo. La trama stessa dell’universo, spruzzata di galassie, dobbiamo immaginarla mossa da onde simili alle onde del mare, talvolta così agitate da creare i varchi che sono i buchi neri». L’universo è un contenitore a fisarmonica incantevole e poetico. Supera il nostro potere intuitivo/immaginativo spazzando in maniera poderosa le fosche cognizioni del quotidiano che pure riteniamo elementari, autoevidenti. Carlo Rovelli nelle Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, 88 pagine, 10 euro), illuminate da una prosa chiara ed elegante, illustra le più belle conquiste scientifiche del secolo passato. Belle per due ordini di ragioni: la prima in senso lato, la seconda in senso proprio.
«Il Novecento ci ha lasciato le due gemme di cui ho parlato: la relatività generale e la meccanica quantistica. Sulla prima sono cresciute la cosmologia, l’astrofisica, lo studio delle onde gravitazionali, dei buchi neri e molto altro. La seconda è diventata la base della fisica atomica, della fisica nucleare, della fisica delle particelle elementari, della fisica della materia condensata e molto altro. Due teorie prodighe di doni e fondamentali per la tecnologia odierna, che hanno cambiato il nostro modo di vivere. Eppure le due teorie non possono essere entrambe giuste, almeno nella loro forma attuale, perché si contraddicono l’un l’altra». Relatività generale e meccanica quantistica – questi due colossi di pensiero inconciliabili e al contempo legittimi nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo – hanno rappresentato e rappresentano tutt’oggi una leggiadrissima vittoria della mente umana. Sono riusciti a sfidare l’evidenza e, per mezzo di ragionamenti complicati su equazioni imperscrutabili, hanno raggiunto la perfettività di una narrazione più semplice e limpida del reale. Ma anche sono teorie belle da ammirare nella loro interezza.
La descrizione dell’universo proposta da Einstein è pura poesia. Credo più in generale che fisica, matematica e poesia siano sinonimi. Si occupano della nuda bellezza. Descrivono il mondo circostante nella sua estatica complessità.
La fisica è un’arte in senso shakespeariano, come è l’arte di Prospero, l’ebbro mago della Tempesta. Einstein è un mago e nello stilare la regina delle teorie fisiche dimostra innanzitutto creatività, capacità di ribaltamento e maestria. «La creazione vive/ come genesi/ sotto la superficie visibile/ dell’opera.// A ritroso la vedono/ tutti gli intellettuali.// Avanti – nel futuro -/ solamente gli artisti» scrive molto opportunamente Paul Klee. Se lo spazio, come dice la relatività generale, non è piatto, ma solcato da grandi onde come quelle del mare che lo curvano e fluttuano, non aveva forse ragione Leopardi quando diceva «e il naufragar m’è dolce in questo mare»?
La relatività è un poema dell’universo così come L’infinito è una fisica della poesia. Rovelli punge proprio su questo punto: comprendere la scienza comporta grandi sacrifici da artigiano che impara i ferri del mestiere, ma il premio collima con l’immarcescibile conquista della bellezza. Gli sforzi di riunire e conciliare la relatività generale alla meccanica quantistica hanno impegnato tutto il secondo Novecento e restano ancora la sfida principale della ricerca scientifica. Una teoria interessante che ha tentato di armonizzare le due diverse tendenze, eliminando la nozione di tempo dalle equazioni, è quella dei cosiddetti grani di spazio, di cui lo stesso Rovelli è uno dei principali fautori assieme a Lee Smolin e Abhay Ashtekar.
«La gravità quantistica a loop è un tentativo di combinare relatività generale e meccanica quantistica, tentativo cauto, perché non utilizza altra ipotesi se non queste due stesse teorie, opportunamente riscritte per renderle compatibili. Ma le sue conseguenze sono radicali: una ulteriore modifica profonda della struttura della realtà. […] La predizione centrale della teoria dei loop è quindi che lo spazio non sia continuo, non sia divisibile all’infinito, ma sia formato da grani, cioè da ‘atomi di spazio’. […] Come sparisce l’idea dello spazio continuo che contiene le cose, così sparisce anche l’idea di un ‘tempo’ elementare e primitivo che scorre indipendentemente dalle cose. Le equazioni che descrivono grani di spazio e materia non contengono più la variabile ‘tempo’. […] Alla piccolissima scala dei quanti di spazio, la danza della natura non si svolge al ritmo del bastone di un singolo direttore d’orchestra, di un singolo tempo: ogni processo danza indipendentemente con i vicini, seguendo un ritmo proprio. Lo scorrere del tempo è interno al mondo, nasce nel mondo stesso, dalle relazioni fra eventi quantistici che sono il mondo e sono essi stessi la sorgente del tempo».
Siamo dunque immersi nell’eternità e il tempo è un’impressione. L’universo, che, come volevano gli Stoici, nasce, si espande e si ritrae in un continuum di balzi e rimbalzi, è costituito dalla coda di scorpione del divenire, sostanza differente dal fluire del tempo. La coscienza percepisce lo scorrere delle cose, ma è tutto un gioco interiore. Alzarsi dal guscio della danza interna significa strappare la pelle del tempo umano e vivere la trascendenza come un crepuscolo cristallizzato. La quantistica a loop non ha ancora ricevuto verifiche sperimentali, tuttavia rimane una teoria assai suggestiva, capace anche di spiegare le inquietanti presenze dei buchi neri.
L’ultima lezione del libro è dedicata a noi, alle nostre percezioni ed emotività descritte in maniera oggimai rivoluzionaria dalle neuroscienze. All’intero capitolo, che abbandona le descrizioni eminentemente fisiche per tirare le somme di una particolare Weltanschauung non lontana dal panteismo einsteiniano di matrice spinoziana, ribatto una della più celebri poesie di Adam Zagajewski, Dalla vita degli oggetti: «La pelle levigata degli oggetti è tesa/ come la tenda di un circo./ Sopraggiunge la sera./ Benvenuta, oscurità./ Addio, luce del giorno./ Siamo come palpebre, dicono le cose,/ sfioriamo l’occhio e l’aria, l’oscurità/ e la luce, l’India e l’Europa.// E all’improvviso sono io a parlare: sapete,/ cose, cos’è la sofferenza?/ Siete mai state affamate, sole, sperdute?/ Avete pianto? E conoscete la paura?/ La vergogna? Sapete cosa sono invidia e gelosia,/ i peccati veniali non inclusi nel perdono?/ Avete mai amato? Vi siete mai sentite morire/ quando di notte il vento spalanca le finestre e penetra/ nel cuore raggelato? Avete conosciuto la vecchiaia,/ il lutto, il trascorrere del tempo?// Cala il silenzio./ Sulla parete danza l’ago del barometro».
Se è vero che l’uomo sembra a tutti gli effetti un animale plasmato interamente dalla natura per la natura, è pure un animale sui generis: capace di lodare e buggerare il creato in mezzo secondo, rimane «l’unica creatura che si rifiuta di essere ciò che è», come disse mirabilmente Albert Camus. Questa discrepanza ineliminabile tra l’essere e il dover essere ci fa riflettere, senza mai poter giungere a una conclusione univoca, che la nostra natura può non apparire solo naturale. C’è un ritardo d’essere che va al di là di ogni essenza, come vuole Emmanuel Lévinas.
Siamo dunque immersi nell’infinito, nella bellezza, nell’eternità. Il tempo, come una pellicola finissima, ci ovatta. Non sappiamo bene chi siamo: forse non lo sapremo mai. Attorno a noi l’universo infinito si mostra con il suo il y a sordo e smisurato. E, oltre ogni scoperta agguantata col genio o con la pazienza del certosino, in ultima analisi, solo una famosa parola di tre lettere riesce misteriosamente a spiegarne l’incanto.