Every beat of my heart, la poesia
Il canto del cigno
Charles Baudelaire, il grande poeta della modernità, flâneur in una Parigi che muta, scorge solo con gli occhi della mente il dolore di ogni anima imprigionata. Quello degli esuli, di un animale fuggito da un serraglio, di Andromaca, di un'africana nostalgica degli alberi di cocco...
Il poeta, il grande poeta della modernità, come scrisse Eliot, che a sua volta divenne il massimo del nostro tempo, cammina per le strade della sua città, Parigi che non è più la stessa, agli occhi dell’infaticabile viandante metropolitano che ogni pomeriggio ogni sera, ogni notte la percorre seguendone le apparizioni, scrutandone le ombre: Parigi muta, solo con gli occhi della mente scorge ancora i mucchi di colonne e capitelli sbozzati, le erbe, i grandi massi inverditi dall’acqua di pozzanghera, e le cianfrusaglie che brillano alla rinfusa dietro le vetrine. Là sorgeva, un tempo, un serraglio; da quel serraglio, un mattino, era fuggito un cigno, uscendo dalla gabbia. Il poeta lo rivede di colpo, come allora: raspa l’arido selciato con i piedi palmati, trascinando le bianche piume sul suolo sporco e scabro, spalanca il becco per abbeverarsi a un arido rigagnolo, mentre il bianco piumaggio si inzacchera di fango che sta asciugando e polvere, e nel cuore ha infisso il lago in cui viveva felice… Baudelaire comprende la lingua dell’alato. Che diceva: «Quando cadrai, pioggia? Quando tuonerai, folgore?». E mentre gridava questo lamento disperato il suo collo si levava inutilmente verso quel cielo dove aveva volato libero, un cielo che al poeta apparve ironico, spietatamente azzurro, e gli parve di udire che le ultime parole del cigno fossero una protesta contro Dio.
Parigi cambia, ma nulla è mutato nella malinconia del poeta, che camminando pensa al suo gran cigno, con i suoi gesti folli in quella strada, sublime e ridicolo come ogni esule. E di colpo il destino di quel grande esule che ricorda i cieli e gli specchi azzurri dei laghi lì, su una strada polverosa bagnata da qualche pozzanghera di fango, di colpo il cigno svela il destino universale della grande anima imprigionata. E agli occhi della mente di Charles Baudelaire, appare Andromaca, la bella sposa del nobile Ettore assassinato da Achille con la complicità della dea greca Atena e con l’inganno, massacrato senza pietà e rispetto… E un’altra immagine, ancora femminile, suscita la visione del cigno: il poeta vede la negra, nella città nebbiosa e fredda, la negra smagrita e tisica, che cerca scalpicciando nel fango, con l’occhio attonito, dietro l’immenso muro di nebbia, le sagome assenti dell’albero di cocco dell’Africa Superba, e da lei il pensiero vedente corre a chiunque ha perduto ciò che non ritroverà mai più, a chi beve le lacrime di un esilio perenne, ai magri orfanelli appassiti come fiori. Così, nella foresta dove il suo spirito si ritira in esilio, un antico ricordo suona un corno, a perdifiato: «E penso ai marinai dimenticati,/ sopra uno scoglio solitario, ai vinti,/ ai prigionieri, e a tanti, tanti altri ancora!». Questo vide e pensò e scrisse Charles Baudelaire, che incontrò un cigno fuggito da un serraglio e ne comprese la lingua, la stessa dei poeti e di ogni esule, di ogni anima imprigionata che è nata per galleggiare come il fiore di loto e volare in alto.
Il cigno
a Victor Hugo
Penso a te, Andromaca, quel breve fiume,
povero e triste specchio dove un tempo splendeva
la maestà immensa del tuo dolore di vedova,
quel Simoenta bugiardo gonfio delle tue lacrime,
mi ha fecondato di colpo la fertile memoria
mentre attraversavo il nuovo Carosello.
La vecchia Parigi non c’è più (il volto di una città
muta più in fretta di un cuore mortale),
solo con gli occhi della mente vedo tutto quel campo
di baracche, colonne e capitelli sbozzati
le erbe e i massi verdi d’acqua di pozzanghere,
e dietro le vetrine cianfrusaglie che brillano.
Là c’era un serraglio, un tempo, là vidi,
un mattino nell’ora in cui si desta
sotto i cieli freddi e chiari il Lavoro, o lo spazzino
solleva un muto uragano nell’aria muta,
là vidi un cigno che era evaso dalla gabbia,
sfregare col piede palmato il pavé duro e secco,
trascinando sull’aspro suolo il suo bianco piumaggio.
Accanto a un rigagnolo asciutto la bestia aprendo il becco
bagnava nervosamente le ali nella polvere,
e col cuore pieno del bel lago natale diceva:
“Quando scenderai, pioggia? Quando rimbomberai, folgore?”
Vedo quel mito misero, fatale e strano,
rivolgere come l’uomo di Ovidio verso il cielo
il cielo ironico e spietatamente azzurro,
la testa avida sul suo collo convulso,
come a rivolgendosi a Dio, ad accusarlo.
II
Parigi cambia, ma niente nella mia malinconia
niente cambia, palazzi nuovi, impalcature, massi,
vecchi quartieri, tutto per me diviene allegoria,
pesano più delle rocce i miei ricordi.
Così, davanti a questo Louvre, mi opprime un’immagine:
penso al mio grande cigno, coi suoi gesti folli,
ridicolo e sublime, come gli esuli,
roso da un desiderio senza tregua, penso a te, Andromaca,
caduta dalle braccia di uno sposo magnanimo,
avvilita sotto le mani superbe di Pirro,
la vedova di Ettore e la sposa di Elleno,
nell’estasi chinata sotto un vuoto sepolcro!
E penso alla negra smagrita e tisica,
con l’occhio attonito, scalpicciare nel fango,
cercando assenti d’alberi da cocco dell’Africa Superba,
dietro l’immensa muraglia di nebbia,
A chi ha perduto quello che non si trova mai più,
mai più, a chi beve le lacrime e succhia
e succhia al Dolore come a una buona lupa,
ai magri orfanelli appassiti come fiori!
Così, nella foresta dove si esilia il mio spirito
un vecchio ricordo suona a perdifiato il corno.
E penso ai marinai dimenticati su un’isola,
ai vinti, ai prigionieri, a tanti tanti altri ancora.
Charles Baudelaire
(Traduzione di Roberto Mussapi)