A Palazzo Barberini
La vita di Piero
Completato il difficile restauro, è esposto a Roma, solo per pochi giorni, un capolavoro di Piero di Cosimo: un tondo cinquecentesco che raffigura il mistero della vita
Il mondo conosce Piero di Cosimo; non tanto perché si vengono a visitare sedi museali italiane, bensì perché i dipinti del pittore rinascimentale e i suoi disegni preparatori di elaborazione e studio sono conservati in musei dislocati in vari continenti; per citarne alcuni, negli Stati Uniti sue opere sono ospitate alla National Gallery di Washington, al Metropolitan di New York, nel Missouri, fino all’Accademy of Fine Arts di Honolulu nelle isole Hawaii e inoltre in varie sedi europee tra cui il Louvre, a Berlino, a Londra, in Ungheria, all’Hermitage e anche in Sud America a S. Paolo del Brasile. Proprio dalla collezione di questo Museo de Arte Chassis Chateaubriand ha fatto il suo rientro in Italia, da cui mancava da quasi quattrocento anni, un dipinto, un tondo raffigurante la Madonna con Bambino, San Giovannino e Angelo, per essere sottoposto a restauro.
Il tondo, che misura cm.129 di diametro, grazie al finanziamento di Inacio Schiller Bittencourt Rebetez (lo sponsor che ha coperto le spese dell’invio e delle costosissime assicurazioni a tutela del trasporto), arriva al Laboratorio di Restauro della Soprintendenza del Polo museale romano, che ha sede a Palazzo Barberini, a dicembre del 2013. È un dipinto che precedenti manomissioni hanno alterato al punto di non permetterne l’esposizione; lo accompagna nel viaggio la dottoressa Karen Barbosa, restauratrice brasiliana che affiancherà per lunghi periodi la dottoressa Paola Sannucci nell’impegnativo lavoro di recupero. Ed è proprio con Paola Sannucciche, in occasione della presentazione al pubblico al termine del restauro, abbiamo potuto ammirare l’opera di Piero, che sosterà a Roma soltanto fino al 18 gennaio, prima di essere esposta, nel 2015 a Firenze e poi a Washington, all’interno di mostre dedicate interamente a Piero di Cosimo (Firenze, 1462 – 1522).
Dipinto su cinque assi di legno di pioppo, il tondo è stato eseguito, si presume, tra il 1500 e il 1510; l’artista dispone sul tondo i quattro soggetti, a creare quasi una piramide: al centro della scena, la Madonna (come in procinto di riavviarsi) trattiene al suo fianco il bambino che, appoggiato su un lembo del suo manto, è posato sul tronco segato di un albero. Ha il piccolo gomito su un libro aperto e le sue braccia sono allargate: la mano sinistra solleva l’indice e l’altra due dita. La Madonna invece è rivolta verso San Giovannino di cui accarezza con amore una gota, quasi a sollecitarlo perché proceda; alla sua sinistra un angelo, che trattiene tra le dita un ramo di rosa canina, simbolo di beatitudine divina e che osserva la scena. L’azione si svolge in aperta campagna, il luogo è chiaro e Piero interpreta un paesaggio di invenzione fantastica in cui avvolge i suoi personaggi, lo puntella di simboli, sapientemente eseguiti, ben colti dalla realtà naturale, pur negli accostamenti di totale fantasia. A sinistra il bruco che simboleggia l’essere in divenire e incarna la trasformazione: il bruco diventerà farfalla, su di lui “vigila” un uccello nero che lo tiene d’occhio. Sempre a sinistra un corso d’acqua, spesso presente nelle opere di Piero in varie forme: l’acqua come origine della creazione divina. A completare la quinta a destra tonde colline, un viottolo e la flora, osservata da Piero da vicino per poter essere poi verosimilmente rappresentata: rami secchi spezzati, altri tronchi tagliati, fiori di ginestra tra le dita di San Giovannino, funghetti a terra (forse mazze di tamburo?) e tanti fiori di campo che all’origine scaturivano anche dalla cornice originale, poi rimossa, posti ad ornamento in un “tondo” già di per sé simbolo di equidistanza e che prendevano avvio proprio dal bordo del sostegno. Dall’osservazione della sua opera non resta alcun dubbio che Piero di Cosimo avesse, come si diceva di lui, una maniacale attenzione per il dettaglio.
Ne parla il Vasari, che lo descrive stravagante e amante della solitudine e ne definisce un profilo esauriente e problematico, quando si sofferma sulle sue abitudini e sui modi, anche respingenti nei confronti dei collaboratori. Piero era alquanto diffidente anche nella cerchia fiorentina, tranne che per Filippo Lippi, Leonardo e pochi altri ai quali è stato accostato. Nonostante questo, quando a Firenze alla fine del Quattrocento arrivano i “primitivi” fiamminghi con il Trittico Portinari eseguito da Hugo Van der Goes ad olio, Piero accoglie favorevolmente l’innovazione tecnica portata dai nordici. Fino ad allora i dipinti sono eseguiti a tempera con alla base gesso e colla per sostenerla; forse primo fra tutti ne sperimenta le possibilità e pur ponendosi in una fase di passaggio rispetto all’uso maturo del nuovo pigmento, raggiunge con il tondo brasiliano una padronanza del mezzo pittorico molto avanzata; se la base resta a tempera sopra questa la pittura è ad olio, che consente, tra l’altro, la resa ottimale di velature, prima irraggiungibile.
Questo è lo scenario di fronte al quale si sono poste le restauratrici, insieme alla presenza di lacune più o meno ampie e a esiti di puliture aggressive succedutesi lungo il corso degli anni; un dipinto sofferente per l’umidità, vittima di ripristini arbitrari che, lungo la sua storia, più volte ne hanno alterato la fisionomia. Se l’abitudine all’osservazione, ad esempio, delle crettature formatesi sulle superfici dei pigmenti in molti casi conduce a esiti soddisfacenti, per avviare il restauro in questa occasione si è voluto ricorrere anche a indagini scientifiche condotte dal MOLAB (CNR – ISTN di Perugia) e alla testimonianza prodotta da vecchie foto fortunosamente recuperate oltre al consueto esame di altre rappresentazioni dell’autore; per risalire, per quanto possibile, a stesure originali, rilevare sovrapposizioni e poter riannodare i fili della cifra stilistica di Piero. Il lavoro è durato un anno intero: prima due mesi di pulitura, seguiti da un mese e mezzo di stucchi e rifiniture e infine sei mesi per la reintegrazione con resine sintetiche, applicate a crescere da una tonalità più chiara, con tocchi di pennello a segnare piccoli puntini accostati. A volte il lavoro è stato compiuto in tandem tra le due restauratrici, a sancire un accordo internazionale possibile nel rispetto della tradizione della storica scuola italiana di restauro e delle esigenze di un pubblico d’oltreoceano. Un compromesso soddisfacente, perché la fantasia non era proprio contemplata.
In questa rara occasione è possibile ammirare la Madonna con Bambino, San Giovannino e Angelo, insieme a un’altra opera dell’artista fiorentino, La Maddalena, eseguita da Piero alcuni anni prima del “tondo”, posta anch’essa pochi anni fa sotto le cure della dottoressa Sannucci nello stesso laboratorio di restauro. Per favorirne il confronto e evidenziarne similitudini tecniche, i due dipinti sono ora collocati nella stessa sala della Galleria d’arte antica di Palazzo Barberini, uno dei sette musei del Mibact del Polo museale romano, proprio dove già era stata collocata la Maddalena, in dotazione alla collezione del Museo sino dal 1907.