Un record preoccupante
Se la Terra suda
Il 2014 è stato l'anno più caldo della storia. Colpa di carbone e petrolio. Ma potrebbe essere anche l'anno della svolta: Stati Uniti e Cina si sono accorti dei disastri che provocano
L’anno che è appena finito, il 2014, è stato l’anno record per il riscaldamento del nostro pianeta: nei dodici mesi trascorsi è stata misurata la temperatura media della Terra più alta dall’inizio dell’era industriale. Sembra strano parlare di caldo proprio in questi giorni, quando il clima è rigido in Europa (ma soprattutto negli Stati Uniti, dove si registrano punte di -50°, grazie a una massa di aria gelida proveniente dall’Artico). Ma una cosa è il clima di alcune zone, che può essere soggetto a grandi picchi di temperatura fredda o calda, e altro la temperatura media rilevata nell’arco di un anno su tutto il pianeta. Questa continua a salire drammaticamente, infatti, dei dieci anni più caldi degli ultimi 200 anni, nove sono stati registrati dopo il 2000.
Nei mesi passati tutte le organizzazioni scientifiche che studiano il problema del riscaldamento globale, a partire dall’IPCC (International Panel for Climate Change) all’Organizzazione Meteorologica Mondiale ecc., hanno lanciato allarmi e moniti sulla situazione. Nel settembre scorso il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, preoccupato dai rapporti degli scienziati, organizzò un summit mondiale sul tema del cambiamento climatico, con forte risonanza mediatica ma scarsi risultati pratici. La successiva conferenza mondiale sul clima, tenutasi a Lima in dicembre, confermò il dato della temperatura media planetaria derivante dal costante aumento dei gas serra nell’atmosfera, causato dall’uso dei combustibili fossili: carbone, derivati del petrolio, gas. La più immediata conseguenza di questa situazione è stato il riscaldamento degli oceani, che ha provocato inondazioni e siccità estreme in diverse zone della Terra.
Insomma nel 2014, a parte i summit e le conferenze globali, utili per studiare il problema e per sollecitare l’attenzione di popolazioni e di governi, è successo qualcosa di rilevante che possa far sperare in un impegno globale per arrestare la febbre del pianeta?
Forse sì.
Il 2015 potrebbe essere l’anno della svolta, l’anno in cui si potrebbe delineare un accordo mondiale sulla riduzione dei gas serra, in occasione della prossima conferenza di Parigi.
Quello che autorizza un moderato ottimismo sulle sorti del nostro pianeta è il mutato atteggiamento, rispetto al problema, del paese in testa alla classifica degli inquinatori dell’atmosfera: la Cina. Questa grande potenza economica non ha mai partecipato a conferenze e summit sull’ambiente, perché ha sempre avanzato una pregiudiziale su come calcolare le emissioni dei diversi paesi. Se si considerano le emissioni totali di gas serra di ciascun paese, la Cina è oggi al primo posto, se invece si considerano le emissioni pro capite degli abitanti delle diverse nazioni, la Cina scivola alle spalle Stati Uniti e Europa. Pechino ha sempre indicato gli americani come i maggiori responsabili dell’inquinamento globale e chiesto che eventuali accordi tenessero conto di questo fatto. In effetti, fino a pochi anni fa, un miliardo e trecentocinquanta milioni di cinesi era responsabile di un quantitativo di gas serra inferiore a quello di trecentoquindici milioni di americani. La tumultuosa crescita economica del gigante asiatico, basata sull’uso massiccio del carbone per la produzione di energia, ha causato una situazione ambientale che si sta facendo insostenibile per la stessa popolazione cinese.
Oltre al contributo crescente di anno in anno al riscaldamento del pianeta, si è avuto un grande aumento di malattie polmonari nei centri industriali, soffocati dai fumi delle centrali elettriche a carbone, mentre nelle miniere, di cui il paese è ricco, non si ferma la strage dei minatori. Questa situazione interna – unita agli allarmi internazionali sul mutamento climatico – ha portato un notevole mutamento nella politica energetica di Pechino nel corso del 2014. Il primo segnale si ebbe a maggio con la firma del contratto di fornitura da parte della società energetica russa Gazprom di trentotto miliardi di metri cubi di gas l’anno. È un importante passo per ridurre l’uso del carbone, sostituendolo con il meno inquinante e meno dannoso gas.
Ma la grande svolta fu in novembre, in occasione della partecipazione del presidente americano Obama al vertice dei paesi del Pacifico, tenutosi a Pechino.
Le prime due potenze economiche mondiali, responsabili insieme di oltre il 45% di emissioni inquinanti, firmarono un accordo per la riduzione dei gas serra.
Barak Obama e Xi Jinping annunciarono l’impegno, frutto di lunghe trattative segrete fra i due stati, a collaborare nella lotta al riscaldamento globale. La Cina dovrà raggiungere il picco di emissioni nel 2030 e iniziare da quel momento a ridurle, grazie al ricorso crescente alle energie rinnovabili. Gli Stati Uniti da parte loro si impegnano a ridurre del 26-28% le loro emissioni entro il 2025.
L’accordo salva in qualche modo il principio sostenuto da Pechino di uno sforzo maggiore da parte americana, ma segna anche un punto di svolta importante prevedendo un impegno cinese, seppur solo fra15 anni, a ridurre l’uso di combustibili fossili.
Ci sono dunque buone speranze che anche altri paesi, di quello definito fino a poco fa Terzo Mondo, come l’India, seguano l’esempio della Cina e che nella prossima conferenza sul clima a Parigi si raggiunga un accordo globale sulla riduzione delle emissioni di gas serra.