L'ex Femen si racconta
Il corpo di Amina
Un senso di incrollabile autocompiacimento. Questo soprattutto svela il libro autobiografico della giovane blogger tunisina simbolo della rivolta femminile nel mondo arabo, presentato a Roma. Dall'infanzia abusata alle menzogne postate su Facebook, una ribellione che ha fatto epoca
Oui, Je suis Amina. In tour. In copertina si firma semplicemente col nome di battesimo, come una rockstar, a sottolineare ulteriormente – caso mai a qualcuno fosse sfuggito – le distanze prese dalla famiglia di origine. La diciannovenne tunisina più cliccata del mondo ex enfant terrible, ex mussulmana, la più nota delle Femen – ironia della sorte le ha lasciate – è una ragazza timida alla ricerca del suo posto nel mondo. Solo che non si accontenta di quello che le è stato assegnato. Grandi occhi neri e fondi, labbra dipinte di rosso cinabro, braccia disseminate di tatuaggi, un turacciolo di bottiglia come orecchino. Se fosse nata a Berlino o a New York probabilmente non ne avremmo mai sentito parlare. Invece Amina Sboui è nata a Tunisi, da una famiglia borghese e benestante – padre medico e madre insegnante – di religione mussulmana. Cavalcando l’onda della primavera araba è assurta a simbolo internazionale della lotta per la libertà.
Attenendoci rigorosamente alle informazioni che lei stessa condivide nel suo libro – Il mio corpo mi appartiene (Giunti editore, 155 pagine, 12,00 euro), presentato nei giorni scorsi a Roma, alla Casa Internazionale delle donne – in realtà già intorno ai 4 anni coglie il senso dell’essere nata femmina attraverso le violenze subite dal figlio ventenne della vicina di casa cui veniva affidata durante il giorno. Violenze che esercitate da altri maschi, proseguiranno fino ai 10 anni. Che dire del senso di colpa maturato di conseguenza – odia il suo corpo umiliato, suo malgrado non è più vergine – che la porta a incidersi sistematicamente le braccia, le mani, il corpo fino a far colare il sangue per punirsi di ciò di cui non ha colpa alcuna? In famiglia nessuno si accorge di nulla e si bevono la storia dei graffi della gatta… Lei sostiene che il suo carattere già autonomo e indipendente le impedisce di chiedere aiuto. Insomma intorno ai 10 anni i suoi genitori si trasferiscono per lavoro in Arabia Saudita, i figli li raggiungono per le vacanze. L’irrequieta Amina si confronta con i divieti veri: velo e burqa di ordinanza, niente birrette al bar… altro che la Tunisia! Di ritorno è affidata in gestione ai nonni.
Sarà proprio il progenitore, deputato sotto il regime di Ben Ali a iniziarla alla formazione di una coscienza politica. Ma la fanciulla è scioccata e confusa. Tanto che all’età di 14 anni annuncia al padre di voler portare il velo. Lui la convince a prendere tempo, lei comincia a leggere il Corano. Si indigna per la scarsa considerazione riservata alle donne dal Profeta che le abusa con la benedizione di Dio. Si domanda se Dio esista davvero. Per scoprirlo esplora la religione cristiana, frequenta le chiese, legge i Testi Sacri. Altra delusione. Diventa agnostica. Sviluppa viepiù il suo senso di giustizia al di là delle regole imposte dalle religioni o dalle dittature e continua la sua ricerca di verità. Siamo intorno al 2007. Grande in quegli anni il contrasto tra la vita menata dai tunisini contratti da povertà e disoccupazione e la ricchezza faraonica sfoggiata dalla famiglia Trabelsi al potere. Amina entra in contatto con gli attivisti e nel 2010 quando a seguito della morte di Mohamed Bouazizi si scatena la Rivoluzione tunisina l’allora sedicenne si scopre una vena organizzativa e si ritrova in prima linea. La portano al commissariato, la pestano, ma lei non demorde. Il dittatore fugge e le cose non migliorano. Decide di allontanarsi dalla famiglia, curiosamente sceglie di andare in collegio e da subito si ingegna per infrangere le tanto odiate regole, anche le più ovvie – ma allora perché andarci?
Sviluppa una necessità assoluta di sentirsi fuori dagli schemi e di scandalizzare, compresa la relazione con il suo professore, più vecchio di 15 anni, sposato, padre di famiglia, bisex e attivista. Finalmente arriviamo al giorno in cui non più paga di ciò che riesce a fare da sola entra in contatto con le Femen per capire se hanno in programma una scorribanda dalle sue parti. «Sai, non è certo domani che verremo in un paese arabo», si sente rispondere da Inna Schevscenco, la leader del movimento nato in Ucraina. E si capisce il perché. Un conto è farsi un paio di giorni di galera in Occidente, ben altra cosa è rischiare la lapidazione. Le viene tuttavia suggerito di postare una bella foto a seno nudo su Fb, magari con la scritta Sono tunisina, sono una Femen. E così, «senza immaginare neanche per un momento l’uragano che stavo per scatenare», Amina una volta tanto obbedisce, si scrive Fuck your moral! sul torace, si fa scattare la foto da un’amica e si fa strumentalizzare dalle Ucraine. Potenza della rete i suoi contatti Fb crescono in pochi giorni da 1.200 a 3.500… Eccitante!
Due settimane dopo, per l’8 marzo, posta una seconda foto. Ispirata dai messaggi di critiche ricevuti si scrive addosso: lI mio corpo mi appartiene. Questa volta le Femen la pubblicano sul loro sito e nel giro di poche ore è l’inferno. «La foto aveva avuto ripercussioni molto più forti di quello che pensavo», racconta ancora l’ingenua Amina. «La situazione è fuori controllo. Ne parlano tutti i giornali, sui siti web, dappertutto… non so che fare»,confida a un amico. È costretta a scappare di casa, a nascondersi. Viene rintracciata dalla famiglia che per proteggerla le sequestra il cellulare e la nasconde in casa di una zia. Lei scappa e si ributta nella mischia. Più ci sono fotografi più non si controlla. Raggiunge la città di Kairouan e con una bombola spray scrive sul muro del cimitero, proprio accanto alla Grande Moschea, la parola Femen. «Così semplicemente, mi era venuto in mente di farlo e l’ho fatto!». Non lo rinnega, perché grazie a quel gesto inconsulto si è fatta due mesi e mezzo di prigione, uno dei periodi più intensi della sua breve vita. Dietro le sbarre incontra donne vere che le insegnano a lavarsi i vestiti e a lavare i piatti, cose che lei incredibilmente ignora: «Da sola mangiavo sempre al fast food, a casa lasciavo fare alla mamma o alla domestica». Si schiera a favore delle altre detenute, è corteggiata dagli avvocati – tutti la vogliono difendere -, le detenute vanno in visibilio quando lei passa in tv e lei lo trova esaltante. Si vanta di fregare i controlli e sputtana le ragazze che collaborano con le sorveglianti. Esce di prigione e sempre protetta, incoraggiata, sostentata dalla famiglia, che lei odia e ama, parte per Parigi per continuare il liceo. E qui finisce il libro.
Oggi Amina dichiara forte e chiaro la sua distanza dal gruppo delle Femen (fondato nel 2008 dall’ucraina Anna Hutsol, classe 1984, economista con una formazione teatrale alle spalle che firma le sue proteste a suon di topless per far guadagnare attenzione mediatica alla sue cause), a suo parere islamofobo e per niente trasparente in materia di finanziamenti. E senza dubbio ne condividiamo – per quel che vale – la scelta. La lotta per i diritti di uguaglianza e libertà non dovrebbe né calpestare né offendere di fatto quelli degli altri. E chiudendo un occhio sul tentato furto natalizio del bambinello, perché dimostrare nei luoghi di culto, producendosi in azioni che offendono il comune senso del pudore? Ci riferiamo alla sacrosanta difesa dei gay inscenata sempre in Piazza San Pietro, in modo talmente ignobile che certo non ha raccolto simpatie per la causa. Di più: perché fare un regalo a quello sporcaccione del cavaliere organizzandogli un teatrino gratuito di valchirie con le poppe al vento – lui di solito queste cose le paga – che l’hanno accolto al grido di Basta Berluscone all’entrata del seggio in occasione delle elezioni politiche?
Tornando ad Amina: lo scorso 7 luglio la ventenne tunisina, ormai residente a Parigi, aveva raccontato sul suo profilo Facebook di essere stata trascinata con la forza fuori dalla stazione di place di Clichy, poco lontano dal quartiere di Pigalle. Cinque uomini “salafiti”, aveva raccontato, l’avevano minacciata con un coltello, rasandole le sopracciglia e i capelli. La giovane era anche andata a sporgere denuncia in commissariato. Salvo poi ritrattare, messa alle strette dalle registrazioni delle videocamere che la contraddicevano. Ancora una volta le è sfuggita la situazione di mano. «C’erano persone che non mi credevano, ma anche tanti che mi difendevano. Non potevo dire che avevo mentito, era troppo difficile. Temevo di deluderli. So bene che questa menzogna – aggiunge ancora Amina – getta discredito sulla parola delle vittime di violenze sessiste e degli integralismi». Amina è comparsa davanti ai giudici per aver denunciato un reato immaginario. Per tutto il libro trapela tra le righe un senso di incrollabile autocompiacimento. Si professa tabagista fuori controllo e alcolista incallita, esaltata da tutto ciò che è illegale. Speriamo riesca a sopravvivere a se stessa.