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Il proverbio globale
Ovunque, nel mondo, sulle donne prevalgono i luoghi comuni. Da leggere le lettere agli amici italiani di Thomas Mann e i racconti di Giuseppe Lupo
Donne. Per millenni la donna è stata al centro dei proverbi, quasi si fosse voluto racchiudere in poche parole la cosiddetta “differenza”, non scevra da pregiudizi. Lo scrittore nigeriano Chinua Achebe giustamente sostiene che i proverbi sono «l’olio di palma con cui si cucinano le parole». La docente olandese Mineke Schipper ha visitato molti paesi, in particolare l’Africa, sorprendendosi per il fatto che alcuni adagi sono pressoché uguali in molte zone, anche lontane l’una dall’altra, e ha compilato una gustosa antologia dei marchi lessicali sulle donne (Meglio zittella che mal maritata, edito da Ponte alle Grazie (133 pagine, 12 euro). Alle Antille l’autrice ha incontrato una donna del Suriname che citata un proverbio esistente anche in Olanda e nella cultura mandingo dell’Africa occidentale: «Chi sposa una donna perché è bella, perderà la bellezza e terrà solo la donna». Certi messaggi sono pressoché uguali anche in paesi che non hanno mai avuto in passato alcun contatto. Per esempio: «Le donne sono come le scarpe, si possono sostituire». Mentre questo circola in India, in Venezuela si dice la stessa cosa con altre parole: «Le donne sono come gli autobus: per uno che parte ne arriva un altro». Simile, nel suo ottimismo, gli ugandesi dicono che «Le donne sono come le foglie fresche di banano: nella piantagione non mancano mai».
C’è, in generale, una marcata accentuazione maschilista, che può essere anche interpretata come disagio degli uomini dinanzi alla femmina. Una sorta di esorcismo lessicale. Somiglianze si riscontrano anche in Europa. Gli inglesi dicono: «Non c’è che una buona moglie al mondo, e ciascuno è convinto che sia la sua». Variante tedesca: «Non esistono che tre buone mogli: la prima ha lasciato questo mondo, la seconda è annegata nel Reno, la terza ancora non è stata trovata». Divertente il proverbio indonesiano: «Fieno che insegue il cavallo vuole essere mangiato», il che vuol dire che «una ragazza non deve mai offrirsi a un uomo». Caustico il Togo, paese dove circola questo proverbio: «Corteggia la vedova, ma chiediti chi ha ucciso il marito». A proposito delle donne sole, sia in Argentina sia in Colombia si dice: «Vedova onesta, porta chiusa». Contiene più felicità l’adagio cambogiano: «Riso freddo è sempre riso, donna vedova è sempre donna». E i giapponesi mettono in guardia: «Una donna bella è un coltello che squarcia l’esistenza».
Luoghi e pensieri. In quarta di copertina viene riportata una frase di Gabriel Garcia Marquez: «Scriviamo per inventare mondi, per che altro sennò?». Riferimento esatto per questa raccolta di articoli di Giuseppe Lupo, lucano che vive a Milano ove insegna Letteratura italiana contemporanea, autore di Atlante immaginario, edito da Marsilio (157 pagine, 15 euro). Il filo conduttore è la stretta connessione tra luoghi (veri o sognati) e quel misto di immaginazione e ricordi che, come in Kafka, Omero e il Calvino delle Città invisibili, spostano le lancette del tempo in obbedienza a premure del tutto personali. Lupo confessa di non essere mai andato a Gerusalemme, eppure in un sogno notturno «abito in una città che ha cupole lucenti e terrazzi, stradine scoscese e case di pietra bianca, cancelli di ferro e alberi, tanti alberi, infinite chiome di palme e ulivi che si affacciano dai muretti degli orti e si muovono al vento». È convinto di essere nella città delle tre religioni, lo intuisce anche dalle voci e dai suoni. «Gerusalemme – scrive – ha l’aspetto di città randagia. Tutti pensano di trovare un riparo, un buco dove infilarsi, un cunicolo dove perdersi. Devo trovare anch’io un nascondiglio e a questo punto mi sveglio senza vedere gli alberi». Già, gli alberi: da questi escono le parole perché le piante si sacrificano, muoiono e si trasformano in carta, recitano orazioni, preghiere, inventano trame come nei poemi di Omero, Ovidio, Virgilio. L’autore ricorda la sua terra dove un tempo i fidanzati, «per dirsi il loro amore, si scambiavano ceppi di querce o di castagni». Era un rito che durava nel tempo, con questa ripetizione legnosa che sostituiva lettere, biglietti, mail o Sms: «L’amore era parlarsi tacendo». Viaggio in aereo, un giorno: Giuseppe lupo vede una nuvola “scoperta” da poco. Si chiama «Undulatus asperatus» (onda increspata), è di color grigio scuro. Da allora è attento alle forme delle nuvole, guardando di sotto: «Il cielo pare una mappa geografica scritta all’incontrario». Avverte, soprattutto quando va in Calabria, l’esistenza di Taprobana, la città del sole di Tommaso Campanella. Se si reca in Sicilia ha davanti alla mente Regalpetra, paese di «parrocchie spopolate» dove Leonardo Sciascia avrebbe voluto pregare. Oppure s’immagina le rotte su cui camminarono i mercanti, i pupari, le prostitute «di quel magnifico album di paesi felici che Vittorini disegnò nelle Città del mondo».
Agli italiani. La bravissima Lavinia Mazzucchetti è stata la traduttrice “storica” dell’opera di Thomas Mann. E ha tenuto una fittissima corrispondenza con lo scrittore tedesco (premio Nobel nel 1929). Pensieri, risposte cortesi, a volte sintesi del pensiero politico del narratore di Lubecca e altre missive che interessano gli studiosi o i biografi di Mann, con particolari a volte superflui. In ogni caso la raccolta epistolare è interessante anche per chi di Mann ha una conoscenza parziale. Questo materiale è stato raccolto e pubblicato da il Saggiatore col titolo La gioia maiuscola di essere scrittori, sottotitolo «Lettere a Italiani», (152 pagine, 14 euro). Ne viene fuori un ritratto di uomo amabile, contrariamente alla fama di scorbutico. L’intento, scrive nella prefazione Cesare De Marchi, è quello di documentare la comprensione del Maestro (dal 1920 al 1955) per le vicende storiche di «quella terra antica ma non esausta che aveva lasciato in lui ottimi ricordi di gioventù e che vedeva inesorabilmente minacciata dalla dittatura». Mann si stupisce, nelle vesti di buon conoscitore di colleghi e intellettuali italiani, del fatto che persone del calibro di Cesare Pavese ed altri, possano dirsi comunisti. Ritiene stupefacente che i paesi a dittatura comunista possano essere diventate sirene soavi per un Pavese, dichiaratosi sempre, anche con dubbi, filo-sovietico. E scrive: «Ma io mi chiedo, ad esempio, come Pavese, con il suo interesse per i temi più delicati e complessi della filosofia contemporanea e la sua tendenza al mito, si raffigurasse la sua vita personale in un’Italia sotto disciplina comunista, nella camicia di forza della dogmatica comunista». Thomas Mann, in altre lettere specifica che la sua posizione neutrale tra America (dove si rifugiò dopo l’ascesa di Hitler) non è da considerarsi a-politica, semmai il contrario. Thomas Mann, in una lettera del ’52, esprime il suo pessimismo politico: «Il nostro prossimo futuro è sempre avvolto dalle tenebre più fitte». L’anno dopo ribadisce il suo credo: «Nella lotta per il potere tra America e Russia io sono, comunque per la neutralità europea, senza nascondermi, tuttavia, che neutralità è già di nuovo una forma di liberalismo». Erano gli anni della guerra fredda.