Al Teatro Massimo di Cagliari
Parla Branciaroli!
Franco Branciaroli ha messo in scena “Enrico IV” trovando una nuova chiave di lettura tutta legata al dolore dell'assenza di vita. Un miracolo teatrale dovuto a una interpretazione memorabile
A volte ci si dimentica della grandezza di Luigi Pirandello. La parabola dell’autore siciliano è strana: Nobel in vita, dimenticato fino agli anni Settanta del secolo scorso, quando venne riscoperto da Romolo Valli e Giorgio De Lullo che ne rivelarono tutta la modernità. Da lì fu tutto un trionfo di edizioni e allestimenti: fino alla noia, fino all’indigestione. Tanto che oggi è difficile riannodare i fili del suo genio, tanto spesso capita di vedere le sue intuizioni geniali tirate in ballo fuori luogo, in allestimenti abborracciati, inutili, che tentano solo di approfittare della fama dell’autore presso le nostre scolaresche per conquistare un po’ di pubblico purché sia. Senza contare che i poveri studenti che assistono a un cattivo Pirandello non saranno mai spettatori teatrali! Anzi, ne fuggiranno. E così ci si dimentica della sua grandezza. Mi ci è voluto Franco Branciaroli per ricordarmela.
Ho visto a Cagliari, in un Teatro Massimo pieno fino all’inverosimile (merito anche del Cedac, il circuito sardo che ne gestisce la parte predominante della stagione), Enrico IV diretto e interpretato da Franco Branciaroli prodotto dal Centro Teatrale Bresciano e dalla Compagnia degli Incamminati. Ed è stato una pirandelliana goduria. Non per le scene (un po’ scombinate, ancorché ricche e sontuose) di Margherita Palli, non per le trovate di regìa dello stesso Branciaroli (i ritratti del giovane Enrico IV e della giovane Matilda che si animo nel finale), non il sapiente tono generale dell’interpretazione, ma proprio per la grandezza del Franco Branciaroli attore. Che ha voluto affrontare Pirandello e il suo Enrico IV cercando una chiave nuova. Operazione non facile, si converrà, con tale e tanta abbondanza di precedenti. Il testo fu scritto per Ruggero Ruggeri, ma fu portato al successo anche da Romolo Valli, come s’è detto, e da Salvo Randone. Senza contare la versione cinematografica che ne diede Marcello Mastroianni.
Ebbene, di queste versioni, salvo quella originale di Ruggeri, conservo ancora buona memoria personale (specie di quella di Valli che fu un vero evento!), come pure di altre minori che si sono succedute poi. Ma di ognuna ricordo l’accento posto sul gioco tra maschera e realtà: Enrico IV è un attore costretto a interpretare la propria vita. E tutti coloro i quali gli capitano attorno sono costretti a recitare in quella stessa vita per sopravvivere.
Caduto da cavallo mentre intrepretava, in una mascherata, il ruolo dell’imperatore tedesco, il protagonista impazzisce e continua a credersi Enrico IV: i suoi lo assecondano e gli costruiscono intorno un set, una specie di Truman Show ante litteram. Se non fosse che la follia scema e Enrico IV invece di rivelare la sua guarigione continua a vivere nella sua commedia: perché sa che fuori da quella finzione, la commedia diventerebbe tragedia. Poiché la donna che amava l’ha tradito e colui che egli credeva amico invece gli provocò l’incidente che gli tolse la memoria. E quando alla fine, stremato, Enrico IV (nel copione questo personaggio non ha un nome proprio, e non è un caso) toglie la maschera, un colpo di scena lo consegnerà per sempre alla finzione.
C’è materia per affondare a piene mani nel conflitto tra essere e apparire che ancora oggi (anzi forse oggi più di ieri) conserva interesse. E invece Branciaroli ha rovesciato il tavolo e ha tirato il suo Pirandello da un’altra parte. Enrico IV è la rappresentazione del dolore: il dolore di un uomo cui è sfuggita un pezzo di vita, che vede gli altri vivere qualcosa che a lui non è stato dato conoscere né partecipare. Il suo è l’acuto di un escluso che solo troppo tardi percepisce il peso della propria esclusione dalla vita. E ditemi voi se questa chiave di lettura non è attuale! Lo spettacolo vale per questo, perché mette di fronte un grandissimo attore e un testo che sembrava consumato definitivamente e che invece Branciaroli ci riconsegna nuovo, moderno, pungente e dolente allo stesso tempo.
Un’ultima notazione. Sono persuaso che la lingua di Pirandello sia troppo sghemba, troppo letterariamente teatrale per reggere il peso del tempo: quell’eccesso di dittonghi, quelle affermazioni tutte al passato remoto, quelle frasi che pospongono il complemento al verbo sono cose difficili da digerire, mi dicevo, per noi che nostro malgrado ci siamo dovuti abboffare di sgrammaticature televisive. E invece dette con la voce pazza e atletica e metaforica di Franco Branciaroli queste parole recuperano la loro meravigliosa forza teatrale: si sgonfiano i dittonghi, si attualizza il passato remoto, si sciolgono le costruzioni rovesciate. È la forza di una grande lingua teatrale messa nella bocca di un attore. Un grande attore.