Inchiesta sul futuro di Roma
Il Parco Colosseo
La commissione insediata dal Mibac ha concluso i lavori. E ha suggerito di creare un grande sistema archeologico dal Colosseo al Circo Massimo a Colle Oppio. Ma non ha sciolto il nodo di via dei Fori Imperiali
Finalmente una scintilla d’immaginazione a riaccendere la speranza che possa rimettersi in moto il grande progetto di sistemazione dell’area archeologica centrale di Roma! Un progetto presentato come perno del rilancio della capitale all’inizio degli anni Ottanta dal sindaco Luigi Petroselli e poi, dopo varie e parziali campagne di scavi delle antiche piazze sepolte sotto via dei Fori imperiali, insabbiato dai suoi successori, tra polemiche, colpi di mano, marce indietro, in un assetto provvisorio e incompiuto di prolungata, indecorosa precarietà.
Ad accendere questa speranza è il rapporto con cui una commissione di otto esperti insediata dal ministro della cultura Dario Franceschini per riesaminare la questione riaperta dal sindaco Ignazio Marino come priorità programmatica della sua Giunta, ha concluso i suoi lavori. E avanzato le sue proposte, indicando un lungo elenco di obiettivi da perseguire. Traguardi già noti e discussi, che è comunque importante rimettere in fila per ripartire, e altri inediti disegnati con uno sforzo che cuce insieme realtà e immaginazione. Importante perché l’unico modo di cambiare una situazione e una città da troppo tempo in stato di stallo è immaginarne una diversa. E disegnarne orizzonti e confini perché anche altri condividano quello scatto di fantasia, ci lavorino su, ne facciano la misura individuale e collettiva dei propri desideri e dei propri sogni.
Per il momento, nulla di decisivo. Molti i passaggi sfumati o lasciati in sospeso, troppo vaghi e non vincolanti e comunque lunghi i tempi di previsione e attuazione: ogni decisione operativa rimandata a chi governa e governerà palazzo Chigi e il Campidoglio e le cento altre postazioni amministrative coinvolte. E non è certo rassicurante che questo nuovo snodo non sia stato adeguatamente pubblicizzato: la bozza finale licenziata dalla commissione dopo undici intense sedute e una lunga serie di audizioni la si può consultare e scaricare liberamente via Internet sul sito del ministero dei Beni culturali. Ma nessuno ha invitato a farlo. Consultazioni e dibattito pubblico sono nelle intenzioni, le occasioni rinviate però ai mesi a venire. Troppa, evidentemente, la paura di non riuscire a tener le briglie di un confronto corale, di non trovare sponde e alleanze in una città incanaglita e distratta, in crisi d’identità e di fiducia. Meglio tener bassa la voce, far circolar poco oltre la cerchia degli addetti ai lavori le informazioni, come del resto ha fatto sin qui il sindaco Marino, non facendo tesoro dell’esperienza di Petroselli, cui pure si richiama, capace di imprimere all’operazione Fori la forza e il richiamo di una svolta culturale di risonanza mondiale, e di accompagnarne ogni passo avanti, ogni mossa, con il coinvolgimento del mondo intellettuale e dei romani tutti. Eppure, nonostante questa mancata o ritardata ricerca di casse di risonanza, c’è nelle trentina di pagine stilate a consuntivo dalla commissione più di un segnale incoraggiante.
C’è ad esempio l’idea forte che (come ci raccomanda anche l’Unesco che ha incluso questo spicchio di Roma tra i tesori dell’umanità) si deve ricominciare a ragionare non solo del valore di quelle rovine archeologiche nel cuore di Roma, di quella storia complessa e stratificata cui si vuole restituire fascino e voce, ma della vitalità, delle energie, delle ricadute culturali ed economiche che possono, debbono rimetter in circolo in tutta la città. Non più dunque solo un parco archeologico a pagamento da isolare, estendere, proteggere, continuare a studiare, a rischio di farne un deserto, ma un corpo vivo riconsegnato all’uso e al godimento di tutti. Da qui la proposta di riformulare il riassetto dell’intera zona per evitare che gli scavi diventino una barriera urbana come i valli ferroviari che tagliano molti quartieri di Roma, creando itinerari e attrezzature che consentano di attraversarli a piedi fino al Tevere e al circo Massimo, fino a via Cavour e via Nazionale. E di sostarci senza il filtro obbligato di un biglietto. È un esperienza in fondo già fatta. La promosse l’allora soprintendente Adriano La Regina, quando l’ingresso al Colosseo passò da gratuito a pagamento. Durò 7 anni, poi fu interrotta tra molte polemiche. Si disse che il libero accesso e la scarsità di custodi finivano per creare degrado, esporre l’area ai vandali e ai furti, rinunciare a minori introiti. Pericoli moltiplicati ad arte, ma problemi reali, che la commissione indica ora, almeno in parte, come affrontare, intensificando il monitoraggio a distanza lungo l’intero circuito, creando adeguati punti di sosta lungo il percorso, compensando i mancati incassi delle visite al Palatino con l’introduzione del pagamento di alcuni monumenti più importanti e delicati, come la Curia e la Casa di Augusto.
Tra le novità che lasciano ben sperare c’è una volontà più forte e concorde di abbattere con un biglietto unico e la realizzazione di passaggi lungo il piano di calpestio della quota archeologica, la grottesca separazione di competenze e bigliettazione sull’area che risale agli anni del Duce: il Foro e il Palatino allo Stato, i Fori imperiali al Comune. Il traguardo è un biglietto unico. Tra i punti di partenza prioritari, a confermare i buoni propositi, la commissione suggerisce di cominciare ad a unificare l’area del Foro della Pace: la frammentazione demaniale è uno degli ostacoli più forte al progetto di riassetto della piazza di cui gli scavi sotto le giunte Rutelli e Veltroni hanno aumentato le conoscenze ma non certo migliorato la vista.
A uno scatto d’immaginazione si deve anche la decisione di ricorrere, nel ridisegnare lo spettacolo delle rovine all’anastilosi, a interventi di ricostruzione in elevato di parte dei monumenti crollati utilizzando i frammenti finiti nei magazzini o ancora presenti sul terreno: si potrebbe cominciare proprio dal Foro della Pace, dove parte del colonnato del portico può essere tirato su, per poi continuare nel Foro di Traiano, e in quelli di Cesare e Augusto. In altri paesi lo si fa da tempo con ottimi risultati. I progetti sono in parte già pronti. L’immagine dell’intera zona riacquisterebbe fascino, tornerebbe ad essere più comprensibile, anche perché a queste parziali ricostruzioni architettoniche la commissione vuole e suggerisce di aggiungere un radicale intervento di ripavimentazione delle antiche piazze. Cosa ancora più decisiva, ha espresso l’intenzione di rimuovere e demolire parte dei manufatti d’epoca successiva a quella tardo antica tornati in luce dagli sterri dell’ultimo decennio: un dedalo indistinguibile di scantinati, terrazze, rampe, muretti che sommandosi alle orribili sistemazioni provvisorie dei vari cantieri precipita il colpo d’occhio nel caos e nel degrado. Comincia insomma a farsi strada l’idea che nell’opera di riassetto e valorizzazione e nell’adeguamento degli scavi che verranno debba prevalere il ripristino dell’impianto imperiale. Le stratificazioni successive possono essere documentate e raccontate in altro modo. E possono dunque essere, se serve, sacrificate. Con poche eccezioni, come l’ex ospedale medievale, che occupa uno specchio del Foro di Traiano. La cautela degli iper-storicisti – riconoscono gli esperti – ha prodotto danni e va superata.
E va superata la prassi seguita sin qui di procedere con sistemazioni parziali, svincolate da un progetto complessivo, che dovrà occuparsi anche della sistemazione a verde del parco urbano. L’assetto anni trenta con la bordatura di giardini e il doppio filare di pinti è saltato. Bisogna ripensarne uno nuovo. Probabilmente meno lineare, ma di piacevole e ragionato impatto.
A questo punto, tradendo vistosamente queste premesse, la commissione ha affrontato e lasciato ambiguamente irrisolto il nodo più spinoso: che fare di via dei Fori imperiali? Ha stabilito che gli scavi vanno proseguiti e quindi che altri spicchi d’asfalto littorio vanno eliminati, così come si dovrà eliminare gran parte di via Alessandrina, la strada che costeggia i recinti di Traiano, Augusto e Nerva e anche il brutto slargo di fronte a piazza Corrado Ricci. Ma poi ha sentenziato che una parte dell’attuale carreggiata, pur assottigliata, va comunque salvata per mantenere – spiega la relazione – un colpo d’occhio che è entrato nelle abitudini, nel gusto e nella storia della città. D’accordo nel pedonalizzare la strada, ma solo parzialmente, lasciando in piedi una carreggiata ponte per i mezzi pubblici: solo bus elettrici, per evitare l’inquinamento.
Proviamo ad immaginarlo questo moncone? Difficile, persino dire a che e a chi servirebbe. La sua permanenza complica, rende macchinosa, priva di senso e di estetica ogni soluzione futura. Come quella – per fortuna bocciata – prospettata da un noto architetto della Sapienza che suggeriva di piantare i piloni di questa superstite passerella e dei suoi svincoli direttamente sul parterre archeologico. Bocciata però è stata anche una proposta di Adriano La Regina, che suggeriva l’alternativa di creare un piccolo corridoio di transito da ricavare, senza danno per i monumenti e minor impatto visivo, giù in basso ai margini della quota archeologica. A prevalere è stata insomma la ricerca di un compromesso che rischia di riattizzare paralizzanti polemiche e scontentare tutti. Quelli che sulle orme di Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli, Antonio Cederna, Italo Insolera, Leonardo Benevolo si sono per trent’anni battuti per lo smantellamento dell’ex via dell’Impero dimostrando, progetti alla mano, che con l’attivazione di una nuova metropolitana – il tratto oggi in via di realizzazione – la vita e l’immagine della città sarebbe migliorata. E la fazione meno omogenea, ma altrettanto determinata, che si è schierata ed è scesa in campo per impedirlo: alternando ragioni di traffico e visioni liberistiche, e poi con lo sdoganamento politico del fascismo, rivalutando con enfasi l’urbanistica di Mussolini, e l’invenzione di quello stradone «che piaceva pure a Le Corbusier». Senza accorgersi, entrambi, che con le nuove campagne di scavi a singhiozzo i termini della questione erano mutati. Che cioè la via dei Trionfi del regime di fatto non esiste più: indebolite le quinte scenografiche dei recinti di rovine infossate, scempiata la retorica ma suggestiva cartolina del rettifilo, meno trainanti del previsto i risultati degli scavi, indecorosa e spaesante la sistemazione e l’agibilità degli interventi provvisori, sempre più confuso lo spettacolo delle vecchie e nuove rovine. Un pezzo intero di città, il suo cuore, congelato in una precarietà che si trascina da vent’anni. Senza futuro.
È forse proprio questo stallo che ci lascia qualche appiglio di speranza anche di fronte al pilatesco compromesso di questa ennesima sessione di esperti. A patto che l’attenzione, le casse di risonanza della comunicazione e della politica si concentrino almeno su altri tasselli dell’operazione, che la commissione ha ben elencato. Vale a dire: la musealizzazione del Campidoglio, il rilancio del Colle Oppio, la saldatura con l’Appia antica e altri grandi complessi archeologici più periferici, la fine della guerriglia tra soprintendenze di Stato e Comune, il recupero dell’Antiquario al Celio, di villa Rivaldi, del complesso di via dei Cerchi, il collegamento tra Palatino e Circo Massimo, il ridisegno di piazza Venezia, la metro C e le sue nuove stazioni. E così via, compresa la intrigante scommessa di una nuova legge per la Roma archeologica, sull’esempio della Biasini, che porterebbe soldi e respiro lungo. Spingiamo tutti perché questi pezzi vadano in tempi ragionevoli a dama. Restituendoci l’orgoglio di accrescere la grande bellezza di Roma, il fervore di una rinascita culturale. A quel punto, rinunciare a una strada che non ha più appeal e servirà sempre meno, sarà una soluzione inevitabile e comunque indolore.