Visto al Piccolo di Milano
Otello sulla luna
Luigi Lo Cascio ha riscritto la grande tragedia di Shakespeare in endecasillabi e in siciliano. Un gioco teatrale per raccontare la pazzia di Otello che ignora l'amore e finisce sulla luna come Astolfo
Credo di essere lo spettatore che ogni attore e ogni regista vorrebbe avere. Infatti da sempre vado a vedere uno spettacolo con lo stupore di un neofita, cosa che mio sento di essere ancora: ricordo la mia prima volta a teatro, da piccola, a Roma, a uno spettacolo con Eduardo, quando i tendoni rossi si aprirono sul buio della sala e, trattenendo il fiato, sentii scricchiolare le tavole del palcoscenico mentre gli attori si muovevano sulla scena. Magnifico.
Quando questa emozione si ripete (ovviamente non tutte le volte, né al cinema né a teatro) capisco il significato di catarsi, quel senso di pace e di equilibrio con cui poi si può guardare al mondo e alla sua strabiliante varietà. Così mi è successo ancora l’altra sera, all’Otello di Luigi Lo Cascio, dove sono rimasta catturata ed emozionata.
La presentazione sul sito del Piccolo avverte che si tratta di una riscrittura del testo shakespeariano, una particolare versione del regista e attore, una rivisitazione, un altro Otello, insomma. Effettivamente Lo Cascio ha trasposto il testo in siciliano, e in versi endecasillabi. Ma questo non mi è sembrato uno stravolgimento: tradurre dall’inglese in siciliano anziché in italiano, e usare l’endecasillabo per trasporre il blank verse di Shakespeare, che comunque è un verso lungo, un pentametro giambico con la rima interna, mi sembra la cosa più naturale da farsi. Perché tradurre i versi con altri versi che suonano in modo simile è meglio, secondo me, che usare una prosa, forse più semplice (prosaica, appunto) ma certo meno alta, meno sublime del verso. E perché la lingua siciliana, o almeno quella di Lo Cascio, mi è sembrata una lingua poetica, adatta a trattare la tragedia.
Rispetto all’originale i personaggi sono qui ridotti ai soli protagonisti, (ma, con i problemi del teatro, oggi, ridurre i personaggi credo sia l’unica possibilità per una messa in scena), per cui oltre alla coppia Desdemona/Otello (due bravissimi Valentina Cenni, lunare e dolcissima guerriera, e Vincenzo Pirrotta, dalla recitazione muscolare e disperata) tiene per sé il personaggio di Jago, che come in Shakespeare è solo la pedina del destino, ma crea un nuovo personaggio che fa da coro (l’ottimo Giovanni Calcagno). Si tratta dell’unica invenzione, rispetto al testo originale, ma è una bella invenzione, perché la sua figura pietosa e dolente è una consolazione quando appare, a tragedia avvenuta già all’inizio. Infatti la sua presenza dichiaratamente vuole tentare di spiegarci il perché della follia di Otello, e così anticipandola la sposta in un tempo in cui il sangue è già versato, la allontana dal nostro orrore di spettatori contemporanei ai fatti, la rende storia su cui si può, a mente più fredda, anche ragionare. E sarà questo personaggio a darci la chiave per poter comprendere, e quindi non respingere del tutto, Otello e il suo gesto folle.
Il tema di Otello è certo alto e non quotidiano: un uomo riamato che uccide l’oggetto del suo amore. E anche in questo il testo di Lo Cascio è presentato come una nuova interpretazione della follia che travolge i protagonisti: “non la gelosia o la differenza di razza, bensì l’inconciliabilità tra maschile e femminile”. È vero, questo testo è sempre stato definito come la tragedia della gelosia, e come tale non l’ho mai capito. Posso immaginare da dove nasca l’offesa del maschio rifiutato che si tramuta in odio e assassinio, come in tutti gli uxoricidi della nostra miserevole cronaca: non potendo più esercitare possesso su un amore finito, gli si nega la possibilità di appartenere a un altro cuore. Ma non credo che Shakespeare avesse pensato a un grande e nobile condottiero, vanto di Venezia marinara e conquistatrice, riamato teneramente da Desdemona, come a un ignorante maschilista assassino dei nostri giorni. E neanche mi convince l’idea che pensasse a un nero bruto e folle proprio in virtù della sua “negritudine”, della sua barbarie (anche se non si può escludere che il grande bardo avesse già intuito quello che per Conrad sarà l’insondabile abisso di buio, che ha il suo doppio in ognuno di noi, il cuore misterioso del continente Africa dove è tabù entrare. Ma questa è un’altra storia) .
Lo Cascio propone come chiave di interpretazione l’inconciliabilità tra maschile e femminile, e per la verità usa un concetto più complesso, cioè fa dire al personaggio-coro che Otello non ha mai capito il grande mistero che è la donna. La sua perdizione è non riuscire a comprendere, né a prendere, ciò che gli viene regalato subito e incondizionatamente: l’amore di Desdemona, totale e sottomesso. È questo il mistero che non è riuscito ad attraversare: una più grande dedizione che non è stata conquistata, ma è sempre stata là. E forse per questo più imprendibile, più inafferrabile.
Ecco perché mi è piaciuto questo spettacolo: perché, oltre a tutti i suoi pregi tecnici (regia, attori, le scene di Nicola Console e Alice Mangano, la musica di Andrea Rocca) mi ha dato una sua interpretazione del testo, ha aperto la pagina di Otello che non mi riusciva di capire, mi ha fornito l’elemento risolutivo con cui chiudere il libro e lo spettacolo. Che si conclude con il personaggio-coro che accompagna Otello sulla luna, in cerca del fazzoletto e delle lacrime di Desdemona, per farne un altarino. Il coro prende per mano l’ Otello-Astolfo ormai privo di senno, e lo induce a tornare a casa senza feticci. Ricorderà come può l’assassinio, e l’amore perduto.
Così la tragedia ritrova la sua catarsi, il suo equilibrio tra le passioni degli uomini e una compassione più alta.