La scomparsa del grande musicista
Napoli senza voce
Una città, un suono, una lingua, un'anima: Pino Daniele era qualcosa di più di un semplice cantautore. Era l'interprete (critico) di uno spirito che voleva rinnovarsi. Senza mai riuscirci
Vai a capire perché, invece della faccia di Pino Daniele, mi viene in mente quella di Francesca Neri, davvero bellissima lì, in Pensavo fosse amore invece era un calesse. È Cecilia che attraversa Napoli in abito da sposa, il velo bianco che non c’è più sulla testa, una mano che trattiene lo strascico: sta andando al bar dove gli ha dato appuntamento Tommaso, cioè Massimo Troisi, che non si è presentato in chiesa, il matrimonio è saltato, perché – dice Tommaso seduto ad un tavolino con lei di fronte – «credo che un uomo e una donna sono le persone meno adatte a sposarsi» . L’andatura di Francesca/Cecilia è scandita da Quando, il brano che Pino Daniele scrisse apposta per il suo amico regista. Una melodia dolce e malinconica, come tutto il racconto musicale del bluesman morto all’improvviso nella sua casa toscana. A marzo avrebbe compiuto 60 anni.
Erano, Massimo Troisi e Pino Daniele, quella faccia di Napoli che diventa altro senza rinnegare nulla, ma innovando con garbo, ironia, genialità. La Napoli giacobina contro la Napoli borbonica, non fosse che i “giacobbi” spesso si sono macchiati di orrendi delitti, che non significa soltanto ammazzare la gente, ma anche ammazzare un’idea, un sentimento, la passione, una speranza. E ancora continuano a farlo, “giacobbi” e non.
Due anticonformisti, così apparvero tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta, quei due: Massimo e Pino. Più tante altre cose ancora. E il manifesto di quella piccola rivoluzione è il testo più poetico e profetico del cantautore; Napule è. Perché Napoli è mille culure ma è anche mille paure, Napoli è ‘na carta sporca e nisciuno se ne importa e ognuno aspetta ’a ciorta, cioè la sorte, il destino. Era un grido pacato e commovente contro la rassegnazione e l’indifferenza. È rimasto per molti versi tale, un suono strozzato in gola, una speranza cancellata. Perché Napoli è ancora ’na carta sporca e non perché è sporca di munnezza, come Roma, ma perché il degrado, l’inerzia, il malaffare e la malavita l’hanno quasi strozzata, come Roma ancora; l’hanno inquinata a tal punto che chi cerca di liberarla da tutti i suoi mali, o da una parte di essi, è sfinito, esausto, sconfitto. Napoli è come una bella donna distesa su uno scoglio, una figura mozzafiato per l’aspetto, l’intelligenza, la naturalezza. Ma il sole che illumina quel corpo, l’ha anche corroso, trasformato, invecchiato.
E molti fuggono via: non è solo questione di lavoro. Gli atenei hanno perso prestigio, i ricercatori sono in grande difficoltà, tanti medici vanno all’estero a proseguire i propri studi. Non succede solo a Napoli, è vero, accade in molte parti del nostro Paese. Ma qui, prendere altre strade, equivale al getto della spugna sul ring: rinunciare, abbandonare, tradire. Le nuovissime lacrime napulitane. Che sgorgano copiose quando un ragazzo viene ucciso per essere sfuggito ad un posto di blocco dei carabinieri. Che si bloccano, al contrario, quando per terra restano le vittime dei camorristi e nessuno si ribella a certe mattanze. E tu sai ca nun si’ sule, cantava Pino Daniele. Invece oggi, in molti casi, sei anche solo.
Sono tramontati i rinascimenti, le ondate arancione e tanto altro ancora. Sono passati i sindaci che volevano farsi re (vedi Bassolino) e hanno miseramente fallito, (la sinistra governa, tra qualche commissariamento e l’altro del Comune, dagli anni Novanta). Una fetecchia insopportabile per chi aveva creduto in una palingenesi. Persino Giggino De Magistris con le sue mille contraddizioni è diventato Giggino ‘ o flop.
Napule è mille culure, Napoli è mille paure.