Fa male lo sport
Magico non più magico calcio
Un po' appannata e senza grandi stelle, prende il via la Coppa d'Africa nonostante dittature e conflitti, virus e terrorismo che non hanno fermato i grandi burattinai della Fifa. Ai quali si consiglia vivamente di rileggere Leopardi
L’Africa non è più la stessa. Calcisticamente parlando. Gli anni Novanta sono lontani, i grandi giocatori sono sul viale del tramonto, i talenti sbocciano a fatica e i pochi che ci sono in giro si sono integrati in Europa. Per tutto il resto invece, l’Africa è sempre la stessa: malattie, guerre, dittature. Ora anche il terrorismo. E il virus Ebola.
Così questa Coppa d’Africa (17 gennaio-8 febbraio) si gioca tra mille incognite e paure. È stata sul punto di essere cancellata quando il Marocco, all’ultimo momento, ha rinunciato a organizzarla. Timori per il diffondersi della nuova peste, l’ebola, che nel continente nero continua a mietere vittime. Tuttavia la Federcalcio mondiale è corsa subito ai ripari. La macchina non poteva fermarsi di fronte ai grandi introiti rischiando di mandare in frantumi la vetrina di un avvenimento che nel passato ha fatto storia con i suoi protagonisti; e con degli show sui campi che hanno superato, in qualche occasione, i palcoscenici europei e sudamericani. Quella africana è stata sempre una grande festa. Di colori, di suoni e di gesti atletici.
Via il Marocco, ecco pronta allo scopo la Guinea Equatoriale che ospita la manifestazione. Blatter e compagnia bella non si sono preoccupati del grado di democrazia e di legalità di questo Paese: dal ’79 la Guinea è in mano ininterrottamente a Teodoro Obiama Nguema, protagonista di una dittatura che le organizzazioni umanitarie giudicano brutale ed efferata. A leggere i reportage degli inviati, nelle carceri dell’ex colonia spagnola si muore facilmente; spesso non si tratta di esecuzioni. La scoperta del petrolio – a metà degli anni Novanta – ha modificato l’economia del piccolo Stato centroafricano, solleticando gli interessi del mondo occidentale. Obiama Nguema è uscito indenne anche dai golpe, in cui riesce difficile non ipotizzare l’intervento della “manina” delle potenze occidentali.
Mancano le grandi stelle a questo torneo africano (il 30°: l’Egitto ha vinto 7 edizioni, il Ghana e il Camerun 4). Ma è certo che si scoprirà qualche sconosciuto talento, come è sempre accaduto. Che il nostro presidente federale, Carlo Tavecchio, provvederà poi a denominare Optì Pobà. Lasciate le maglie delle loro nazionali Drogba ed Eto’o (che approda a Genova per giocare con la Samp), si guarda a Yaya Touré (Costa d’Avorio) come colui che potrà illuminare la Coppa. Il centrocampista è il Pallone d’oro africano, anzi l’ultima nomina sul podio più alto è stata la quarta consecutiva. Neanche Weah o Milla, nomi a noi familiari, hanno fatto meglio di lui. Dal 2010 Yaya Touré gioca nel Manchester City, dopo aver girato in squadre belghe, ucraine, greche, spagnole e francesi. Quando arrivò in Belgio, al Beveren, aveva soltanto 18 anni. A maggio ne compirà 32. Accanto a lui, nella nazionale ivoriana e in Inghilterra, gioca Wilfried Bony, alto e grosso, uno che ha segnato tanti gol nella Premier League: questo attaccante di 1,80 di altezza e di 90 chili di peso potrebbe essere uno dei primi attori della recita pallonara. La Costa d’Avorio (che ha pure Gervinho) è indicata come una delle probabili vincitrici del torneo. Come l’Algeria che ha fatto soffrire la Germania ai Mondiali del Brasile, costringendola ai tempi supplementari; una squadra, quella nordafricana, che ha giocatori sparsi in tutta Europa. Altra candidata alla vittoria è la Tunisia che nelle qualificazioni ha eliminato l’Egitto e ha preceduto il Senegal; i tunisini hanno in Anis Ben-Hatira, che è nato in Germania ed è cresciuto nell’Herta Berlino, anche lui centrocampista, un elemento di altissima qualità. Tra i nomi che destano curiosità e interesse c’è anche un Pogba, ma non è Paul, fuoriclasse della nazionale francese e della Juve, che si è già convinta di venderlo la prossima stagione perché ricaverà un buon bottino. Questo Pogba è Florentin, il fratello, difensore del Saint-Etienne, che ha scelto di indossare la maglia giallorossa della Guinea, dopo aver giocato nelle giovanili francesi.
Tra le cause dell’appannamento del calcio africano c’è da mettere in conto l’esodo verso l’Europa, la razzia dei migliori da parte di club e nazionali del Vecchio Continente. Tuttavia, al tempo di Cristiano Ronaldo e di Leo Messi è difficile mettersi in luce e rubare spazio ai migliori quando la dimensione tecnica non è eccellente. Facciamo un po’ di conti: su 368 giocatori che prendono parte al torneo, ben 248 vengono da campionati europei. I 23 del Senegal arrivano tutti dall’Europa; 21 sono quelli della Costa d’Avorio e di Guinea; 20 quelli del Mali (che ha perso gente come Kanoutè e Sissoko ma che rimane tra le migliori squadre, altra pretendente al titolo, illuminata da Seydou Keita, capitano e uomo chiave, non a caso voluto fortemente da Rudi Garcia alla Roma).
È assente una big come la Nigeria – che vinse nel 2013 – fatta fuori dal Congo guidato dal francese Claude Le Roy, veterano della Coppa (ne ha fatte 8), trionfatore con il Camerun nell’ 88. Uno che chiamano lo “stregone bianco”. Lui conosce bene questo continente e la sua storia al punto da dire alla Gazzetta dello Sport: «Quando si viene a lavorare in Africa è importante conoscere la cultura locale, le lotte di indipendenza, il napalm che i francesi usavano in Camerun ben prima degli americani in Vietnam». In Nigeria hanno altro a cui pensare. Boko Haram ha sparso il terrore e la morte nel Paese e c’è chi teme che l’organizzazione jihadista possa sfruttare l’evento calcistico per qualche nuovo, clamoroso e sanguinoso episodio di violenza. Ma è difficile non trovare, tra le sedici nazionali che si affronteranno in Guinea Equatoriale Paesi che non hanno problemi, dal terrorismo appunto alle emergenze sanitarie, dalla instabilità istituzionale alla guerriglia.
Abbiamo ancora impresso negli occhi il Mondiale brasiliano chiuso a metà luglio, sei mesi fa. La macchina del presunto spettacolo non conosce soste. Anzi, quando può, raddoppia, triplica, quadruplica, si moltiplica all’infinito: un superfetazione del pallone. È di qualche mese fa la notizia che Michel Platini ha concepito una nuova competizione europea da piazzare negli anni dispari: si chiamerà la Nations League. Già si erano inventati la Confederation Cup, una sorta di Mundialito prima del Mondiale. Adesso avremo anche un altro Europeo. Tarocco. L’aggettivo è di Luigi Garlando, che nel numero del 13 dicembre scorso del magazine della Gazzetta, “Sportweek”, ha scritto un articolo da condividere da cima a fondo, invocando la magia dell’attesa. «…il calcio moderno ha ormai demolito una delle più raffinate categorie dello spirito: quella dell’attesa. Non sappiamo più attendere, desiderare e quindi godere, come prima. Una volta attendere per una settimana il secondo tempo registrato di una partita di serie A rendeva irresistibile lo spettacolo televisivo. Ci era concessa solo quella sbirciata attraverso la serratura del campionato. Oggi che vediamo tutto di tutti e consumiamo di continuo, desideriamo molto meno, anche perché nelle larghe intercapedini tra una partita e l’altra i giocatori si riposavano, si allenavano e offrivano una qualità di gioco che gli stressati calciatori di oggi, sempre in campo o in viaggio, faticano a permettersi. Platini non capisce che per migliorare il calcio bisogna togliere, non aggiungere. Dovrebbe rileggersi Leopardi e restituire un sabato d’attesa al villaggio».
In Africa la passione per il pallone non è calata nonostante la crisi delle squadre e il moltiplicarsi delle difficoltà. I grandi burattinai del calcio giocano sul sicuro e fanno credere che dittature e conflitti, virus e terrorismo non oscureranno la festa del gol di un intero continente.