Fra storia e autobiografia
L’Italia di Ilaria
“Cammino controcorrente”, ovvero quando industria e cultura andavano a braccetto. Come nella Milano dov'è cresciuta Lady Borletti Buitoni che ha affidato alle pagine del suo libro il ritratto di un Paese fatto di impegno, spirito imprenditoriale, passione civica
«Credo che sarà breve la mia permanenza in politica. Sa, la mia impazienza non mi aiuta». Così Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretario ai Beni Culturali, mi disse pressappoco un anno fa, nel corso di un’intervista. E che sia impaziente, la discendente di una delle grandi famiglie lombarde di imprenditori lo conferma nel suo libro – un po’ biografia un po’ storia del Novecento – Cammino controcorrente edito da Mondadori, nella neonata collana delle Madeleines Memorie. Colta, ricca, cresciuta in un ambiente esclusivo, quello della Milano-bene, sposata a Franco Buitoni, altro cognome legato all’Italia che produce, la signora smania se qualcosa non le piace. E il sassolino non sa tenerselo nella scarpa. Se lo deve togliere, davanti a tutti, per eliminare il fastidio. Perciò non fa mistero di non aver avuto affatto feeling con l’ex ministro del Collegio Romano, Bray, con il quale in quota Scelta Civica è diventata sottosegretario, dopo essere stata eletta deputato nel collegio Lombardia 1 e aver elargito al partito di Monti in campagna elettorale 710 mila euro, per pura passione civica, al contrario delle insinuazioni – stigmatizza – di Marco Travaglio. Riconfermata da Matteo Renzi nello stesso ruolo, afferma invece di andare d’amore e d’accordo con Dario Franceschini, che le ha affidato le deleghe al Paesaggio, all’Expo 2015 e al nodo Grandi Navi a Venezia.
Un altro sassolino, meglio macigno, dalla scarpa se lo tolse quando incontrò per la prima volta Berlusconi, il quale negli anni Settanta, tycoon ancorché sconosciuto, si era comprato la villa dei Borletti in via Rovani, in esclusivo quartiere meneghino. L’occasione fu il ricevimento che il Cavaliere, raggiante premier, diede in onore di Clinton, presidente Usa. Lady Ilaria alla stretta di mano di Silvio, non si trattenne dal dire: «Certo, da quando comperò la nostra casa ne ha fatta di strada, presidente». Del resto l’Autrice – che prima di entrare in politica è stata presidente del Fondo Ambiente Italiano e antecedentemente aveva guidato Amref Italia Onlus capendo così i meccanismi del Terzo Settore – gioca a carte scoperte con la propria indole. «Ho sempre rifiutato i consigli di qualche spin doctor di adeguare la mia capigliatura alla moda corrente, così come di rendere il mio carattere meno deciso e diretto e più diplomatico e sfuggente. Quanto ai doppi cognomi che porto, sono un pezzo di storia dell’industria italiana del Novecento fatta di impegno, di successo e di insuccesso», dice di sé.
E appunto il suo libro racconta l’Italia dell’industria, dell’editoria, della cultura allorché la capitale di tutto ciò era Milano, la Milano forgiatasi nel primo Novecento e cresciuta in carisma prima del grande botto di Tangentopoli. I Borletti ne furono protagonisti, da quando il nonno di Ilaria, «Senatore di nome e di fatto», dopo essersi lanciato come produttore di stoffe e aver sposato Anna Dell’Acqua, figlia di un imprenditore che aveva disseminato l’Argentina di piccoli empori accumulando una colossale fortuna (divisa in 50 eredi, e che dunque rese possibile solo «un pranzo al Savini» ricorda con ironia l’autrice), creò nel 1918 “La Rinascente”. Il nome glielo suggerì Gabriele D’Annunzio, amico ben foraggiato di quattrini. E non fu solo il primo grande magazzino italiano, ma segnò una svolta culturale nel commercio e nell’industria, forte della intuizione di «ampliare la fascia dei consumatori rendendo accessibili più prodotti nello stesso punto vendita e a prezzi abbordabili». Insomma, la «democratizzazione dei consumi», sottolinea la Borletti. Senonché dopo appena due settimane dall’inaugurazione, un rogo distrusse il grande magazzino a sei piani di Piazza Duomo, inaugurato il 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio, da re Vittorio Emanuele III. Senatore ha gli occhi arrossati di lacrime e di fumo, ma ordina presto alla moglie, mentre stanno per recarsi alla Scala: «Nanà, met su i giuei». Nanà, indossa i gioielli più costosi. Per rassicurare i banchieri di un patrimonio ancora solido. Per ottenere nuovi finanziamenti. Che vennero e il grande magazzino rinacque due anni dopo. Così come nel 1950, dopo essere stato abbattuto in tempo di guerra, nel 1943, da un bombardamento.
Come in un film d’epoca, un Come eravamo o un La meglio gioventù in versione alto borghese, la storia di Ilaria si snoda emblematica. Ecco la Resistenza, vissuta da suo padre mettendoci la faccia. Si chiamava Romualdo, detto “Micio”, rafforzò il marchio Rinascente grazie all’idea del “vestito pronto per tutti”, firmato addirittura da Pierre Cardin e da un giovane Giorgio Armani. Morì giovane, nel 1967, come troppi dei Borletti. E il grande magazzino dovette essere alienato due anni dopo, “svenduto” per incauta manovra di familiari eredi, poco orgogliosi di quanto i Borletti avevano realizzato.
L’altra anima di Ilaria, quella più squisitamente culturale, venne dalla madre, anticonvenzionale, assetata di cultura. Fondò un polo culturale, il Durini, dal nome dell’edificio settecentesco che lo ospitava. Svecchiò l’intellettualità meneghina, favorendo autori da sdoganare, come Genet, nei conformistici anni Sessanta italiani. E la piccola Ilaria, battezzata da un coraggioso don Gnocchi visto che i suoi genitori erano divorziati, cresce a brioches e arie d’opera (le cantava con la madre, che così le faceva ingannare la noia di stare chiusa in casa durante le malattie esantematiche infantili), sgattaiola nei camerini occupati da grandi attori, si laurea alla Statale. Poi la prima cesura. Lascia la “Milano da bere” negli anni Ottanta, per lei insopportabile. Vive a Londra ma per 17 anni passa un mese, d’estate, in Kenia, come volontaria in un ospedale. Da questa esperienza nasce l’impegno in Amref. Dalla sua formazione culturale l’amore per l’ambiente che la fa approdare al Fai. Dallo spirito imprenditoriale della famiglia coniugato alla passione civica che pure era stata dei genitori, l’impegno in politica.
Ai Beni Culturali s’è trovata a lottare contro alcuni mulini a vento, come quando ha proposto una più razionale utilizzazione dei custodi. Ha messo nero su bianco, in un instant book intitolato Con la cultura (non) si mangia?, non tanto i suoi successi quanto ciò che non è riuscita a fare come sottosegretario. Di Matteo Renzi dice: «…in lui sono evidenti la qualità di politico e la velocità con la quale coglie e interpreta gli umori del Paese. E i suoi non sono – contrariamente a quanto appare – programmi, ma speranze…». Però «dare speranza, riuscire a darla, è uno dei grandi meriti che egli ha. Il realismo in Italia non ha mai premiato».