Il film indipendente di Matthew Warchus
L’unione fa diversi
«Pride», la pellicola sulla lotta comune di gay e minatori contro la Thatcher, è una lezione di cinema "impegnato". Perché la solidarietà può anche emozionare
Ora che i matrimoni tra persone dello stesso sesso sono stati legalizzati in molti paesi del mondo occidentale, inclusi 35 dei 50 stati degli Stati Uniti, non fa specie parlare dell’alleanza tra gruppi di omosessuali e appartenenti alla classe operaia. Ma certo non era normale negli anni ‘80. Neanche in Inghilterra che è sempre stata all’avanguardia per quanto riguarda i diritti civili. Così, il film Pride – piccolo gioiello del cinema indipendente inglese, una cosiddetta dramedy diretta da Matthew Warchus – prende spunto da un fatto vero accaduto proprio nel 1984 quando la National Union of Mineworkers, il sindacato nazionale inglese dei minatori sotto il governo Thatcher entrò in sciopero per la chiusura di una miniera di carbone nel sud del Galles. E parla proprio di una improbabile quanto difficile alleanza tra i minatori del Galles e un gruppo di giovani e coraggiosi omosessuali londinesi.
La politica della Lady di Ferro porterà allo smantellamento di molti siti minerari e alla perdita di 20.000 posti di lavoro, mentre il sindacato proclamerà uno sciopero di circa un anno in condizioni estremamente disagiate in cui i minatori nel tentativo di difendere i loro diritti saranno ridotti alla fame e i fondi del sindacato sequestrati.
A Londra nel frattempo un piccolo gruppo di gay e di lesbiche ( 8 in tutto) che si faranno chiamare Lesbians and Gays Supporting the Miners (LGSM) dichiara la sua solidarietà con i lavoratori in sciopero nel nord. Il leader del gruppo, Mark Ashton, qui interpretato magistralmente da Ben Schnetzer, riesce a fare una colletta per loro e trova dopo molti rifiuti e ostilità un supporto nel sindacalista Dai Donovan (Paddy Considine) a Ollway nella contea di Dulais nel sud del Galles. L’uomo li va a trovare a Londra e inizia una collaborazione che attraverso fasi alterne si concluderà con un’unione senza precedenti e diventerà l’inizio di uno dei momenti più alti delle lotte per i diritti civili in Inghilterra.
Il gruppo di gay colorato e colorito parte da Londra e compie una serie di viaggi nel piccolo paese del Galles guidando un altrettanto colorato pullmino, mentre Pride diviene da quel momento il racconto di un pesce fuor d’acqua, determinato a nuotare comunque. Gli abitanti del luogo sono divisi riguardo alla presenza dei giovani attivisti e il film descrive bene l’atteggiamento omofobico della gran parte dei minatori e delle loro famiglie. «Per la verità voi siete i primi gay che abbia mai incontrato nella mia vita» dice uno dei minatori. A cui prontamente viene risposto «per quanto ne sai…». E comunque lo sceneggiatore Stephen Beresford individua il terreno di incontro tra i due outsider, gli attivisti e i minatori, proprio nel loro sentirsi estranei e in disaccordo con il governo e con il prevalente sentimento popolare. Dopo un’iniziale ostilità, il gruppo londinese viene finalmente accolto dalla gran parte dei locali (non tutti ovviamente) che ne accettano l’aiuto e si crea una sorta di cross-cultural bond e di amicizia che cambierà molte delle vite dei protagonisti di questa storia da una parte e dall’altra.
Il personaggio di Mark Ashton, leader del gruppo gay,che per primo sollevò il problema di aiutare i minatori in difficoltà, giunse a questa conclusione partendo da una considerazione politica molto semplice: i minatori erano oggetto di violenza proprio come lui e i suoi amici. La somiglianza tra le due condizioni è il punto che questo piccolo ma potente film cerca di mostrare rivelando una lotta che non è ancora completamente vinta su nessuno dei due fronti. Quando i sindacati ai voti rifiutano l’aiuto del piccolo gruppo di attivisti c’è un grande momento di commozione che non nasconde il disappunto e la sofferenza dei giovani, ma mette in evidenza la forza della loro determinazione nel continuare anche non voluti per una causa che li vede oggettivamente uniti nel respingere la mancanza di giustizia sociale abbinata a quella dei diritti civili.
Successivamente, nell’essere testimoni dello sciogliersi del ghiaccio dei pregiudizi dei minatori vanno notati alcuni personaggi interpretati in maniera superba da Imelda Staunton, Bill Nighy e Paddy Considine tra i gallesi e Dominic West, Fay Marsay e George McKay del gruppo LGSM. La conclusione del film è liberatoria, simbolica e tocca le corde profonde dell’emotività. Alla grande parata gay inaspettatamente i minatori con decine di pullman si presentano in forze a sostegno del piccolo gruppo destinato ad avere una posizione di coda nel corteo. Ma sono troppi e gli organizzatori della marcia decidono pertanto che insieme il piccolo gruppo e i minatori marceranno in testa con i loro stendardi.
Pride è un film delicato e triste allo stesso tempo: si svolge durante il picco più alto dell’epidemia di AIDS e porta a galla quell’epoca di grande libertà, ma anche di grande tristezza per i molti amici e conoscenti che sotto i colpi di quella malattia inesorabile sono caduti. Quando i titoli finali scorrono e conosciamo il destino reale di quei personaggi, emozioni miste di gioia e di grande tristezza si mescolano tra di loro proprio come i componenti del gruppo di attivisti londinesi e di minatori del Galles. E ci turbano profondamente, ci portano alle lacrime. Almeno a me hanno fatto piangere di grande commozione.
Quella grande manifestazione per i diritti civili fu epocale e di portata storica in Inghilterra, ma il destino di Mark Ashton che, non ancora trentenne, cadrà sotto i colpi dell’Aids giusto pochissimi anni dopo, sta lì a ricordarci non solo che la lotta contro i pregiudizi non è ancora conclusa, ma soprattutto che la solidarietà tra gli emarginati, gli outsider, è qualcosa per cui vale la pena di lottare e su cui riflettere anche ai nostri giorni in cui le distinzioni di classe sembrano divaricarsi sempre di più e andare a colpire, come sempre, i più deboli. E ciò non ci può e non ci deve lasciare indifferenti.