Un saggio su "Arte e potere"
L’arte è merce?
Jeff Koons e Cattelan resteranno come Michelangelo e Caravaggio? Se lo domanda Roberto Gramiccia, cercando di capire quando l'arte, mercificata, ha smesso di rappresentare il mondo e l'uomo
La bellezza può salvare il mondo. Così un secolo e mezzo fa Dostoevskij assegnava al linguaggio profetico dell’arte un traguardo sublime di liberazione e speranza. Centocinquantanni dopo, nel suo saggio Arte e Potere (Ediesse, 219 pagine,13 euro) Roberto Gramiccia, medico, collezionista, critico e scrittore ribalta questa prospettiva. La trasforma in una domanda provocatoria che battezza nel sottotitolo il suo libro: «Il mondo salverà la bellezza?». E capovolge completamente l’orizzonte. Trascina chi ne condivide l’urgenza dall’estetica alla politica. Perché è il mondo che va cambiato, sottratto alla voragine di senso in cui è sprofondato: il capitale che consegna l’esclusiva del comando alla finanza, alla mitologia del pensiero unico e del libero mercato, la diseguaglianza sociale che cresce a dismisura, l’uomo che perde il controllo del proprio destino. E l’arte che si accoda, si rassegna ad essere merce, una variabile del sistema che abdica alla profondità, alla storia, alla realtà. Rinuncia a farsene con l’immaginazione contrappunto e misura, continuando a cercare nella sfida alla morte la sua ragion d’essere.
Già, la morte. È la premessa alla quale Roberto Gramiccia ricorre per inquadrare il senso ultimo dell’arte, che condensa l’origine e il cammino, la sua necessità di interrogarsi sul mistero, sull’invisibile, inoltrarsi nei suoi labirinti, farsi a sua volta Storia. Felice intuizione che offre almeno una bussola, il criterio della durata nel tempo delle loro opere, per distinguere artisti veri e presunti: Michelangelo (accanto al titolo un particolare del “Mosè”), Caravaggio resteranno, difficile sapere se Jeff Koons (“Elefante”, 2011, qui accanto) o Cattelan riusciranno altrettanto: si sono assicurati un posto in un museo, lo troveranno anche nell’immaginario del futuro? E comunque aggiunge una spiegazione al declino attuale dell’arte: come potrebbe non entrare in crisi in una società che ha messo al bando la morte, l’ha trasformata in uno scandalo? Tracciato questo quadro di riferimento l’analisi di Roberto Gramiccia si sviluppa con rigoroso puntiglio storiografico su due versanti: quello della filosofia e quello dell’economia e della tecnocrazia. Un prezioso compendio di teorie che si affannano di inseguire e catturare l’identità mercuriale dell’arte, di definirne il valore nel mercato dei beni o infine , restando all’indagine specifica di questo libro, di ricostruirne i rapporti oscillanti con il mondo del potere.
La svolta decisiva in questo intreccio di relazioni avviene con Duchamp. Un colpo di genio fatale il suo orinatoio (qui accanto), innesca conseguenze che scavalcano le stesse intenzioni dell’artista. Se ogni cosa può essere arte, l’arte non è che una cosa tra le altre, una merce. Poco importa che Duchamp stesso ridimensioni la portata provocatoria del suo gesto, rifiutandosi, come spiega in un’intervista cui Gramiccia concede ampio risalto, di mettere in mostra il suo campionario di oggetti trovati. E poco importa che in questi cento e più anni di guerre, orrori, rivoluzioni e naufragi ideologici, l’arte continui a dare segni di vitalità in un andirivieni di altri percorsi. La sua mercificazione è ormai sancita. Con il trionfo del neoliberismo selezione e controllo passano a un complesso sistema autoreferenziale: case d’asta, collezionisti, musei pubblici, ribalte internazionali, critici trasformati in manager definiscono l’imbuto sempre più stretto delle scelte che danno plusvalore e profitto, degli autori che contano e più di altri si adeguano alle linee di tendenza dominanti. E l’arte abbandona la storia, la realtà, anche se è un controsenso, si condanna alla superficie, accodandosi passivamente al trapasso dei poteri dalla politica alla finanza. Poche le eccezioni, le figure controcorrente. Come poche sono le voci che si battono per cambiar direzione a una società che precipita a occhi chiusi in questa voragine. Ma ci sono, tengono viva la speranza. E Roberto Gramiccia ci si aggrappa per disegnare, augurarsi un futuro possibile di riscatto. Ma è una battaglia, come nota giustamente nella sua prefazione il filosofo Alberto Burgio, che tocca alla politica combattere.
E gli artisti, quelli che non si sono piegati e ora pagano dazio al sistema e alla crisi, che cosa possono, debbono fare. Certo la loro immaginazione, persino la loro angoscia sarebbero strumenti preziosi? Ma come coinvolgerli, come restituir loro voce di gruppo e parole, visto che il sistema li ha frantumati, li ha resi afasici, continua a negar loro ribalte? Come possono opporsi alle storture del libero mercato se non riescono a crearsene uno alternativo di sopravvivenza? E i critici, quelli alla Roberto Gramiccia che vedono lontano come Cassandra? Avrebbero anche loro un ruolo importante da recitare, se solo cominciassero a imporre filtri più rigorosi, a distinguere chi fa ancora arte da chi si limita a venderla, a riancorare il giudizio all’opera e non all’idea. Perché non cominciano a farlo. Ma questa è un’altra storia. Un altro capitolo, un altro libro che Roberto Gramiccia non ha ancora scritto.