Il confronto tra Oriente e Occidente
Caro amico islamico
Lettera aperta sui diritti, sui doveri, sulla tolleranza e sulla reciprocità, dopo il sangue di Parigi e tutto quel che ne è conseguito. Perché il rispetto non è mai a senso unico
Caro amico islamico, lascia che ti spieghi come funziona il mio mondo nel quale hai più o meno liberamente scelto di venire a vivere; perché ho paura che tu abbia travisato dove sei. Non guardare la televisione, non leggere i giornali, non seguire troppo i social network: prendi l’autobus nelle città, viaggia con i pendolari, fai un giro nei mercati rionali e vedrai le cose diverse. Dammi retta. Questo pezzo di mondo non è moralmente putrido come pare nei talk-show e nelle riunioni di Borsa; non è territorio di disgregazione e idiozia spiritualistica. No: questo mondo nel quale sei venuto a vivere è molto più complesso. E ha una storia lunga. Molto lunga. Come la tua.
Il fatto che tu sia qui, lo sappiamo entrambi, deriva da una vecchia occasione mancata del passato: cent’anni fa la tua terra, mal amministrata e troppo sfruttata da chi la viveva, collassò. Anche sotto la spinta della speculazione sistematica messa in atto da chi viveva in questa mia parte di mondo. Ma – lo sai, lo so – le colpe dei padri non ricadono sui figli: questo vale sia per la corruzione dei padri dell’Impero Ottomano sia per l’ingordigia dei padri del colonialismo occidentale. Padri e figli vanno semmai valutati per altre strade. Perché vedi, amico islamico, se tu puoi godere di servizi sociali di base, se hai la possibilità di alzare la voce, di protestare (talvolta giustamente) per la difficile condizione nella quale alle volte sei costretto a vivere, lo devi a mio nonno e mio padre che versarono il loro sangue anche perché tutti avessero (anche tu) dignità sociale nonché la libertà, qui, di protestare. Mio nonno era soldato a Caporetto e sul Piave; mio padre era portaordini della Resistenza. Vorrei che conoscessi la loro storia, i loro sogni, le loro utopie: sei qui a trarne frutto e beneficio. Sono sicuro che ti piacerebbe sapere come e perché queste tue libertà sono state conquistare. Non so se nelle tue terre sia lo stesso, ma mi piacerebbe che sapessi che anche mia nonna e mia madre, in totale libertà, rispettare dalla società, a volto scoperto, quegli stessi progressi hanno contribuito a raggiungere. Donne libere e rispettate: che non dovevano nascondersi né dovevano sentirsi schiave dei propri uomini, caro amico islamico.
Vorrei che tu sapessi, mio amico islamico, che qui sei il benvenuto. Ma ogni volta che ti fai vincere dall’odio (per chi?, per che cosa?, frutto di quale equivoco?, di quale ignoranza?) mi troverai pronto a ricordarti che qui sei il benvenuto purché tu conosca e accetti i principi della civiltà che ti ospita. Tra questi principi, uno dei più consolidati è la tolleranza. Pensa che il dio di questa parte del mondo ha predicato che di fronte a un’offesa si debba porgere un’altra guancia! Io non arrivo a quest’eccesso, io più di frequente perdo le staffe, se vengo offeso; ma anche per me il principio della tolleranza è sacro. A una sola condizione: che sia coniugato al gemello principio della reciprocità. Abbiamo tutti stessi diritti e stessi doveri. Sono tollerante con quanti sono tolleranti con me. Reciprocità è la parola magica del mondo nel quale sei venuto a vivere, amico islamico: la tua libertà finisce dove comincia la mia, nel reciproco rispetto. È bene che tu lo sappia, perché dopo i fatti di Parigi, dopo la carneficina di Charlie Hebdo, dopo l’orrore del negozio kosher, dopo che nel nome del tuo dio qualcuno è venuto a colpirmi al cuore della mia civiltà, della mia cultura, delle mia tolleranza, le cose non saranno più come prima. Non chiuderò più gli occhi su tutti i tuoi confratelli che esprimono soddisfazione ogniqualvolta viene ucciso un uomo; non chiuderò gli occhi su tutti quei tuoi confratelli che restano in silenzio di fronte agli orrori, che non bestemmiano il dio che semina odio e magari imbottisce di tritolo bambine inermi. Bambine, amico islamico: femmine, non maschi. E forse non è un caso.
Un’ultima cosa vorrei dirti, amico islamico. Sono stato comunista negli anni Settanta, quando qui in Italia emanavano fascino e sangue i terroristi delle Brigate Rosse. Qualcuno di noi li bestemmiò «compagni che sbagliano» o disse che leggendo le loro parole aveva l’impressione di sfogliare un album di famiglia. Non era così, naturalmente: quelli erano solo inetti che calpestavamo le libertà conquistate da altri anche per loro. Ma erano una minoranza: una minoranza assoluta e molto rumorosa. Ma noi altri, che con loro non avevamo nulla a che fare (come te, rispetto a chi porta morte in giro per l’Occidente) fummo processati. Fummo esaminati: ogni nostro gesto, ogni nostra parola, ogni nostra debolezza venne passata al setaccio. E solo oggi io so che quel processo, quegli esami avevano una loro ragione d’essere. Lo stesso sarà per te, amico islamico: gli esami non finiscono mai. Tutte le tue parole saranno analizzate e valutate; i tuoi silenzi e le tue intenzioni. Da queste parti è così: la storia vale per tutti. Ricordiamocelo.